La vittoria di Syriza e l’elezione di Jeremy Corbyn alla segreteria del Labour Party, possono offrirci alcuni elementi di riflessione sulla vicenda italiana. Siamo infatti di fronte a due storie, per certi versi, agli antipodi: un partito di sinistra, nato pochi anni fa, che si consolida come forza di governo, da un lato; e dall’altro, un partito dalle radici secolari che rinnova radicalmente leadership e orientamenti politici. E in Italia, verrebbe da chiedersi? Ci sono le condizioni per la nascita di un nuovo partito della sinistra? Oppure, si può considerare ancora possibile un ruolo diverso del Pd?

I partiti non si inventano dal nulla, non sono il frutto volontaristico dell’azione di alcuni imprenditori politici: le capacità strategiche degli “stati maggiori” sono decisive, ma da sole non bastano. I partiti mettono radici sulla base di profonde rotture nella storia di un paese, o sulla base di fratture sociali e culturali che esprimono bisogni non contingenti di rappresentanza politica.

E’ quanto accaduto in Grecia: una drammatica crisi economica e sociale ha spazzato via il vecchio sistema politico, e Syriza si è saputa imporre come una nuova sinistra di governo, in grado di interpretare, prima di tutto, le esigenze di dignità nazionale di un intero paese. In Gran Bretagna, naturalmente, è tutta un’altra storia: il Labour Party, rimane il luogo fondamentale della sinistra britannica, e una personalità come Corbyn ha potuto tranquillamente essere rieletto nel “suo” collegio della periferia londinese, per decenni. E ha potuto oggi conquistare la leadership sulla base di precisi orientamenti politici. Merito certo della struttura democratica interna del Labour Party; ma merito soprattutto del fatto che il Labour, comunque, è un partito con una tradizione, una cultura politica, una memoria storica, riferimenti sociali consolidati: ci si “sente”, innanzi tutto, “laburisti”, e lo si era anche quando a dirigere il partito era Blair, perché quel partito c’era prima di Blair e ci sarebbe stato anche dopo…

Questi sommari cenni ci bastano a percepire quanto diversa, e molto più complicata, sia la vicenda italiana. Qui posso limitarmi ad un’affermazione che avrebbe bisogno di lunghe analisi: nonostante tutto, per come è fatta la società italiana, non siamo in presenza di una crisi economica e sociale che possa precipitare in forma drammatica, tale da costringere ad una ridefinizione radicale di forze, di interessi, di identità. Ma, se non vi sono queste condizioni “sistemiche” che possono giustificare la nascita di un nuovo partito, ve ne sono però – e molte – di natura politica e culturale.

L’involuzione che sta vivendo il Pd sta creando le premesse per un radicamento non effimero di un nuovo partito della sinistra. Il Pd aveva alle spalle l’eredità di due grandi culture politiche, quella comunista e quella cattolico-democratica: è oggi un partito senza storia e senza identità, e la responsabilità, naturalmente, non è solo di Renzi. Se a ciò si aggiunge il profilo programmatico delle scelte che il governo di Renzi sta compiendo, se ne potrebbe trarre la conclusione che non solo vi è “spazio” per un nuovo partito della sinistra, ma che questo risponda ad un’esigenza storica profonda.

Le difficoltà, tuttavia, cominciano a questo punto, e non sono poche. Intanto: come interpretare l’evoluzione del Pd renziano? Schematizzando, possiamo avere due letture. La prima: Renzi è un fenomeno “populista”; come tutti i populismi, avrà un suo ciclo: dall’entusiasmo alla delusione, al risentimento. Se si accoglie questa lettura, ha un senso la posizione di chi dice: “a Renzi farebbe comodo se me ne andassi: ma non gliela do vinta, non gli regalo il partito, prima o poi Renzi andrà a sbattere”. Chi adotta questa tesi tende ad aspettare che “passi la nottata”; ma è una posizione sempre più debole: nel Pd di oggi, per la sua struttura leaderistica e plebiscitaria, lo spazio per una battaglia politica interna è sempre più residuale. La seconda lettura possibile: Renzi sta mettendo in atto una consapevole strategia di “stabilizzazione neo-centrista” del sistema politico italiano. A questo disegno è del tutto funzionale che gli unici antagonisti siano, da una parte, una destra egemonizzata da Salvini e, dall’altra, una forza “antisistema” come il M5S. A questo disegno è altrettanto funzionale la riforma elettorale. Ed è del tutto funzionale anche l’evidente “smobilitazione” dell’ettorato berlusconiano che Berlusconi non sta facendo nulla per evitare. Interessi e forze sociali che sono stati il nucleo del centrodestra sentono di non avere nulla da temere da Renzi (l’operazione Verdini risponde a questa logica).

A me sembra che la lettura più convincente sia la seconda: ma la prospettiva di un nuovo partito della sinistra, che sappia mobilitare la “massa critica” necessaria, non per questo è più semplice. Si può, intanto, enunciare un assioma: qualsiasi operazione politica che sia, o sia percepita, come l’ennesimo tentativo di riaggregazione delle forze che tradizionalmente si collocano a sinistra del Pd è destinato al fallimento. L’elettorato che proviene dal Pci e dai Ds (specie in regioni come la Toscana e l’Emilia) è un elettorato profondamente allergico ad ogni cultura minoritaria: è un elettorato con uno spirito profondamente “governativo”. Tant’è che preferisce l’astensione, come accaduto alle elezioni regionali, quando vuole esprimere il suo disagio, che il voto ad una pur apprezzabile offerta alternativa. Ed è un elettorato che alle elezioni politiche potrebbe in buona parte tornare a votare per il PD. L’idea secondo cui – spostandosi il PD “al centro” – si aprirebbero “praterie” a sinistra, è una teoria che non funziona.

Vi è poi la questione dei tempi con cui avviare un possibile processo costituente: non si può pensare di risolvere subito e in partenza tutti i problemi che la nascita di un nuovo partito reca con sé; il rischio, altrimenti, è che questo nuovo soggetto si trovi subito di fronte ad uno scenario che ne soffochi sul nascere le prospettive.

Si immagini solo cosa potrebbe accadere, già nella primavera del 2017, una volta operativo l’Italicum nella sua attuale versione (premio alla lista). L’idea strategica di Renzi è chiara: porre tutto l’elettorato di sinistra, al ballottaggio, di fronte ad una scelta davvero imbarazzante: o Lui, o Grillo o Salvini.

Chi crede nelle possibilità di un nuovo partito della sinistra deve cercare da subito i modi per sfuggire ad un tale dilemma: e quindi, come si suol dire, occorre “fare politica”, non basta ritagliarsi uno spazio di nobile testimonianza. Le cose potrebbero andare diversamente se, nel frattempo, fosse nato un partito che abbia la credibilità di rappresentare almeno il 10% dell’elettorato: ma questo sarà possibile se, e solo se, questa forza non si rifugia nel comodo slogan “mai col Pd”. E quindi deve essere una forza che sappia rivolgersi al Pd e al sui elettorato di sinistra, al grande corpo di militanti e dirigenti che sono “con Renzi”, oggi, solo perché con lui, “finalmente, si vince”. Ponendo alcune semplici domande: come pensa Renzi di spuntarla in un probabile ballottaggio? Continuando a sbeffeggiare la storia e la memoria della sinistra italiana? O continuando, ad esempio, con il suo atteggiamento apertamente provocatorio nei confronti della Cgil?

La prova elettorale cui un nuovo partito della sinistra potrebbe essere presto chiamato a misurarsi potrà rivelarsi vincente solo se trasmette il senso di un voto che pesa e incide sugli equilibri politici e programmatici: il nuovo partito non avrà futuro se si pensa, o se viene percepito, come uno spazio residuale di resistenza (così come, in Grecia, non hanno avuto spazio quanti hanno contestato Tsipras in nome di un’astratta coerenza ideologica). Certo, Renzi potrà marciare sulla sua strada; ma, se ciò accade, non è detto che tutto il Pd lo segua. E allora la frattura si potrà rivelare ancora più profonda, e dagli esiti oggi imprevedibili.