C’è un tale via-vai di politici in questi giorni tra Italia e Libia che come nei vecchi Flipper – arnesi ormai da modernariato – tra le tante luci che si accendono qui e là non si riesce più a seguire il percorso della pallina. Eppure dove vorrebbe portare tutto questo lavorio, quale sarebbe il «goal», il tilt, della partita che sta giocando il «governo del cambiamento», è presto detto: si vuole ripristinare nientemeno che il «Trattato di amicizia italo-libico» firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 dal Colonnello Gheddafi e dall’allora premier Berlusconi.
Senza alcun ritegno e dando un calcio alla storia (l’Italia all’articolo 3 si era impegnata a non ricorrere mai alla minaccia o all’uso della forza contro il partner libico, che invece a distanza di soli tre anni bombardò) e alla molto modificata, per non dire stravolta, situazione in Libia, con due governi e un braccio di ferro rovente sul controllo dei porti di Sidra e Ras Lanuf (ora in mano al generale Haftar) e dei proventi del petrolio tramite la Noc e la Banca centrale diretta dallo spregiudicato Sadiq al Kabir, difeso da Serraj e che Haftar vorrebbe sostituire forse in cambio della riconsegna degli incassi delle petroliere, ora ferme, alla compagnia Noc.

Ieri a parlare del ripristino dei meccanismi dell’accordo italo-libico, non solo per quanto riguarda il «contrasto all’immigrazione clandestina» (leggi respingingimenti, hot spot fuori dal territorio Ue e controllo congiunto delle frontiere sud), ma anche alle borse di studio per gli studenti libici, alle strutture sanitarie da realizzare là con personale medico europeo e agli investimenti per la ricostruzione è stato, a Tripoli, il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani. Incontrando il premier di Tripoli Fayez Serraj, in visita ufficiale, Tajani si è impegnato a farsi latore del progetto – ufficialmente partito dal ministro degli Esteri di Serraj, Mohamed Siyala, durante l’incontro con l’omologo italiano Moavero a Tripoli sabato scorso – parlandone con Lady Pesc Federica Mogherini. L’accordo ora dovrebbe dunque avere il doppio ombrello Ue e Onu.

Nel frattempo a Roma , sempre ieri, c’era tutto un fermento libico. Salvini saliva al Colle a parlare anche di questo argomento con Mattarella, il nuovo ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e stesso premier Conte incontravano l’inviato speciale Onu per la Libia Ghassam Salamè. E lo stesso Conte s’intratteneva a Palazzo Chigi con i due «dioscuri» vice Salvini e Di Maio, con il ministro dell’Economia Giovanni Tria e, in collegamento, con la ministra Elisabetta Trenta. Il tema, anche qui, per quanto è filtrato, non esulava dall’argomento Libia, visto il recente contrasto tra la titolare della Difesa e quello dell’Interno sulla concessione dei porti italiani alle navi della missione Sophia per il soccordo ai migranti naufraghi.

L’accordo con cui l’Italia nel 2008 coglieva l’occasione di chiudere la partita post coloniale per fare affari d’oro che ingelosirono i francesi, oggi viene riesumato anche perché metterebbe nel piatto 5 miliardi di dollari di investimenti per grandi opere infrastrutturali da realizzare, esentasse, in Libia dalle industrie italiane nell’arco di 20 anni, magari attraverso un fondo europeo. Più il monitoraggio delle elezioni libiche attraverso osservatori europei, proposto da Tajani.

Ma in Libia le giravolte italiane non sono guardate di buon occhio da tutti. Nella capitale c’è stata una manifestazione con slogan anti-italiani e in Cirenaica gruppi salafiti «madkhalisti» hanno inneggiato «alla jihad» contro quella che definiscono una base militare «del governo fascista italiano» – a Ghat, frontiera Sud. Le proteste sono orchestrate o solo amplificate da Haftar. Certo però l’inviato Salamé ieri ha ribadito che serve una pacificazione tra est e ovest della Libia e che la fine dell’embargo per le armi chiesto da Serraj, con l’appoggio di Roma, spetta solo al Consiglio di sicurezza Onu. La pallina qui non va in buca.