Venerdì pomeriggio. La preghiera è appena terminata e i fedeli si allontanano dalla Jamia Masjiid, la moschea principale di Srinagar, capitale estiva del Kashmir indiano.

Le truppe dell’esercito sono schierate ai cancelli e osservano da lontano i giovani coprirsi il volto. Nel giro di pochi minuti l’aria diventa irrespirabile e i marciapiedi si tramutano in un cimitero di pietre. Esplodono numerose granate stordenti. Dalle ombre in mezzo alle nubi dei lacrimogeni si alza una voce: «Cosa vogliamo?». Centinaia di altre ombre rispondono con veemenza: «Azadi!», libertà.

In Kashmir, dove anche i bambini conoscono il principale slogan del separatismo, le proteste seguono il ritmo della preghiera. I giovani lanciatori di pietre sono cresciuti durante gli anni ’90, quando infuriava la guerriglia armata contro il governo indiano.

Nei cuori di questa generazione non c’è più alcun dubbio: l’India sta portando avanti un’illegittima occupazione possibile solo grazie alle 600 mila truppe che rendono la regione una delle zone più militarizzate al mondo.

Nell’estate del 2016 le braci del risentimento si sono riaccese per via della morte di Burhan Wani, popolare comandante di un gruppo armato separatista, ucciso dalle truppe indiane. Una nuova stagione di proteste, martiri e repressione è terminata senza risultati concreti ma con 90 morti, migliaia di feriti e centinaia di giovani che hanno perso la vista a causa dei pellet gun, fucili che sparano centinaia di piccole sfere di metallo.

A Srinagar, oggi, si respira un’aria di disillusione; nei cimiteri si fa spazio per nuove lapidi e le pietre non sembrano più abbastanza. Burhan Wani è diventato un simbolo centrale della causa kashmiri ed ha infiammato l’animo dei suoi coetanei, ora pronti a seguirne l’esempio.

Ostaggio delle frizioni indo-pakistane e delle spinte indipendentiste interne, sessantotto anni fa è cominciato un interminabile inverno di sofferenza per il Kashmir che vive ormai nella speranza di veder un giorno sbocciare la primavera dell’azadi.

 

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Giovani urlano slogan durante un corteo separatista (© Camillo Pasquarelli)

 

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Sameer, 22 anni, colpito da due proiettili durante una sassaiola nel 2010. 16. Di umili origini, oggi, per sposare la ragazza che ama, gli è stato chiesto di trovarsi un buon lavoro. Un politico locale ha risposto così alla sua richiesta di aiuto: “L’unico lavoro che puoi avere è in polizia perché sei uno che conosce le sassaiole” (© Camillo Pasquarelli)

 

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Un gruppo di donne durante una preghiera notturna (© Camillo Pasquarelli)

 

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Un gruppo di ragazzi nuota nel lago Dal, l’unica zona libera e sicura durante il coprifuoco (© Camillo Pasquarelli)

 

 

L’autore

Camillo Pasquarelli nasce a Roma nel 1988. Dopo gli studi in scienze politiche si trasferisce a Torino dove si laurea in antropologia nel 2015. Oggi si occupa di reportage affiancando l’approccio dell’antropologia all’uso del mezzo fotografico. Lavora da due anni a vari progetti in Kashmir, dove nel 2015 ha svolto 5 mesi di ricerca riguardo i sentimenti politici degli abitanti e dove nel 2016 ha coperto l’insurrezione popolare anti- governativa. Attualmente è iscritto al master in Fotogiornalismo a Officine Fotografiche Roma.