La Maker Faire, che in questi giorni occupa ben sette padiglioni della Fiera di Roma, presenta una volta ancora numeri di livello internazionale. Per contare i visitatori è ancora presto, ma quasi settecento espositori fanno capire che almeno per i makers l’appuntamento romano è ormai imprescindibile. «Fra poco i padiglioni della Fiera non basteranno più. Dovremo sparpagliare la Maker Faire in tutta Roma», scherza Massimo Banzi, curatore della manifestazione. «Ma non si può pensare di allargarci all’infinito – ammette – a un certo punto dovremo scegliere in quale direzione andare».
È normale che una fiera dell’innovazione cerchi sentieri nuovi. Banzi lo riconosce: «le stampanti 3D non sono più una novità», e infatti sono meno numerose del solito così come i droni, che ormai si regalano a Natale ai bambini. L’evento economicamente tira ancora, ma forse è in crisi di identità.

MAKER SIGNIFICA più o meno «artigiano digitale»: indica tutti coloro che oltre a divertirsi con il fai-da-te sanno anche lavorare in rete, connettendosi con altri appassionati per scambiare informazioni, consigli, progetti. L’esempio più fulgido era (ed è) un prodotto italiano, il microprocessore Arduino inventato proprio da Banzi e libero da brevetti e copyright. Potendo copiarsi e migliorarsi a vicenda, gli utenti di Arduino hanno creato una comunità internazionale vivacissima, su cui l’impresa di Banzi ha costruito un business innovativo e visionario.
Se alla prima edizione (anno 2013) maker era una parola per iniziati, ormai il concetto è entrato nel linguaggio comune: appena possono, ricercatori, designer, imprenditori, alunni e insegnanti si presentano come maker, e anche questa ambiguità lessicale non aiuta.
Prendiamo la scuola. L’idea che ogni istituto tecnico dovesse diventare un FabLab, una officina in cui si progettano e realizzano invenzioni usando strumenti condivisi e a basso costo, era piaciuta molto a Renzi, che ne aveva fatto un pilastro della Buona Scuola. L’offensiva culturale ha funzionato: un centinaio di stand della Maker Faire è occupato da scuole superiori di tutta Italia, talvolta con progetti di eccellenza. All’Istituto Tecnico di Maranello, ad esempio, hanno realizzato il veicolo «Emilia 4» e vinto il «Solar Challenge», 2700 km tra Nebraska e Oregon da correre con l’energia del sole. Vedremo se il trend sopravviverà anche sotto il governo gialloverde, che intende smantellare la riforma renziana alla velocità di una Ferrari.

IL FOCUS della Maker Faire di quest’anno è sull’economia circolare: l’idea, cioè, che a valle della produzione industriale i rifiuti riprendano vita per trasformarsi in nuovi materiali o in energia. L’Italia è il primo paese in Europa per percentuale di materie recuperate e reimmesse nel ciclo produttivo (18,5%) e il secondo per valori assoluti (48 milioni di tonnellate). In effetti, il riciclo è un concetto caro ai makers, abituati a montare apparecchi rotti per ripararli o trovar loro un nuovo uso. Ma riciclare i rifiuti può significare anche bruciarli e su questo terreno molte grandi aziende nel settore energetico hanno progetti ambiziosi. Il padiglione della Maker Faire dedicato al settore dell’economia circolare lo ha mostrato in modo plastico.
Sui lati, gli stand degli inventori capaci di riciclare persino gli scarti della produzione delle pale eoliche, la grafite con cui realizzare matite quasi eterne o l’acqua di irrigazione in Etiopia, grazie un aratro speciale sviluppato in modo specifico per quei terreni e capace di moltiplicarne per sette il rendimento agricolo.
Al centro, l’enorme area dell’Eni, uno dei maggiori gruppi industriali in Italia. L’ha disegnata l’architetto Carlo Ratti, rappresenta un enorme bancone da bar e rende visibile come gli oli usati possano trasformarsi in biocarburanti. Alla Maker Faire è venuto l’amministratore delegato Claudio Descalzi in persona, perché l’impresa era delle più ardue: pochi giorni fa l’International Panel on Climate Change intimava di abbandonare i combustibili fossili per limitare il surriscaldamento del pianeta; Descalzi ha provato a convincere il pubblico che il maggiore gruppo petrolifero italiano rappresenti una soluzione all’emergenza climatica, e non una delle cause del problema.
Il rischio che la Maker Faire si trasformi in una efficiente macchina per il green washing è dietro l’angolo. Ha cercato di approfittarne pure Virginia Raggi: entro un mese, ha annunciato, sarà pronto il piano di azione per l’energia sostenibile della città, e per lo scetticismo si è alzato più di un sopracciglio.

LO STESSO DUBBIO affiora quando, nell’area dedicata alla salute, ci si imbatte nei banconi della Sanofi-Genzyme, la terza società farmaceutica più grande al mondo. La Sanofi è un ospite fisso alla Faire. A Roma espone diversi progetti fatti in casa, spesso sviluppati da genitori molto creativi per bambine e bambini disabili. Allo stesso tempo, è una delle principali responsabili della guerra ai farmaci generici, quelli venduti a costi più accessibili per i pazienti una volta scaduti i brevetti. Solo nel 2017, il numero delle cause intentate da Sanofi e colleghe contro i generici è salito del 30%. «Non è una contraddizione», ha cercato di a spiegare Filippo Cipriani, responsabile del rapporto MaketoCare (www.maketocare.it) che mappa l’innovazione open source in ambito sanitario. «Sanofi produce farmaci, non dispositivi. Qui diamo ai pazienti la possibilità di indicare bisogni e possibili soluzioni, per attirare l’attenzione delle aziende che possono realizzarle». Ma se non lo fanno è anche perché non possono brevettarle. D’altronde, se pure le matite riciclate sono brevettate, significa che lo spirito open source si è un po’ sbiadito anche tra gli artigiani.

OLTRE ALL’ECONOMIA circolare, la grande novità della fiera riguarda l’esplorazione spaziale. Forse non sembra un tema da makers, visto che per mandare un satellite in orbita servono mezzi e risorse alla portata solo dei governi e dei grandi gruppi industriali. Sta a ricordarlo l’imponente razzo utilizzato dalla missione Apollo, esposto a Roma per la goduria dei più piccoli. Però, ci si ricrede ascoltando Don Eyles, il programmatore che sviluppò il software che portò il modulo lunare di Armstrong e Aldrin sulla Luna nel 1969. Il computer su cui girava aveva prestazioni circa un milione di volte inferiori a uno smartphone economico, poteva essere stampato su un libro rappresenta davvero un prodotto artigianale rispetto ai software attuali. Eppure, riflette Eyles, «non mi pare che tutta questa tecnologia ci stia rendendo migliore la vita». Ha concluso con qualche consiglio per il futuro «ogni dollaro speso per scopi militari è un dollaro sottratto alla ricerca che può risolvere i problemi reali del nostro pianeta».

ANCHE MARK HEMPSELL, il presidente della «Società interplanetaria britannica» ha ricordato le origini artigianali dell’esplorazione spaziale. La società nacque nel lontano 1933, quando l’idea di andare sulla Luna era una fantasia di pochi mattacchioni. Eppure, i progetti visionari di quegli anni – moduli lunari, tute spaziali, missili lanciatori – non erano così lontani da quelli che, molti decenni dopo, furono realizzati dalle agenzie spaziali. E l’artigianato potrebbe tornare a essere il futuro dell’esplorazione: il prossimo progetto della Società riguarda proprio un satellite da 100 sterline (pre-Brexit, ha prudentemente specificato Hempsell) per assicurare l’avventura spaziale alla portata di studenti delle scuole superiori.