La produzione teorica di Ernesto Laclau non può essere compresa omettendo la sua esperienza giovanile nell’Argentina degli anni Settanta. Militante politico vicino al partito argentino di ispirazione trotzkista, intervenne più volte su un nodo difficile da sbrogliare. Nell’America latina la classe operaia era una componente socialmente minoritaria della sinistra politica. Ma neppure i contadini potevano essere indicati come il «soggetto centrale» di una auspicabile rivoluzione. Di fronte alla difficoltà di fare leva su una lettura «tradizionale» del marxismo, tanto nella sua versione «europea» che «terzomondista», Ernesto Laclau invitava a rileggere criticamente alcuni teorici «eterodossi» come Antonio Gramsci e a confrontarsi, senza timore di perdere in fedeltà ai sacri principi, con le esperienze politiche variamente qualificate come «populiste».

Era l’inizio di un percorso teorico che allora Laclau dovette abbandonare per cause di forza maggiore, visto che lasciò precipitosamente l’Argentina, quando – dopo il golpe – i militari cominciarono quella pratica di annientamento della generazione politica a cui apparteneva il filosofo argentino. Dall’Europa, anzi dall’Inghilterra Laclau ha osservato a distanza la débâcle della sinistra latinoamericana. È quindi tornato a studiare Gramsci e Lacan, autore già letto in Argentina. È in questo crinale, oltre che personale anche politico, che prende avvio il sodalizio – pure qui: sia personale che politico – con Chantal Mouffe. Entrambi hanno sostenuto una necessaria presa di congedo dal marxismo, senza però cedere al canto delle sirene neoliberiste, che avevano scelto l’Inghilterra di Margaret Thatcher come uno dei siti privilegiati.

Antonio Gramsci viene allora usato come un teorico del politico, anche se dal concetto di egemonia viene espunto ogni riferimento sociale. Tanto Laclau che Mouffe considerano infatti il concetto di classe come uno strumento da togliere dalla cassetta degli attrezzi di un pensiero critico. Lo stesso vale per la costellazione analitica della critica all’economia politica. Il politico è considerato lo spazio «ricompositivo» di una proliferante eterogeneità sociale. Detto in altri termini, tanto Laclau che Mouffe vedono nella dialettica tra democrazia diretta e potere costituito il fattore qualificante di un Politico che assume come orizzonte la crisi della democrazia rappresentativa; un Politico considerato non luogo della decisione, bensì spazio per l’elaborazione di un universale che ingloba la molteplicità del sociale.

È a partire da queste riflessioni che Laclau ha analizzato il populismo contemporaneo. Il filosofo argentino non considera il populismo come un residuo di un’attitudine premoderna. Il populismo, infatti, è considerato un’espressione moderna del Politico. Di fronte l’esplosione di «particolarismi» che non trovano accoglienza nello Stato, la «ragione populistica» ha per il filosofo argentino la forza di operare una sintesi, che non cancella però il «particolare»: semmai lo colloca, lo ingloba, in una dimensione «universale» superiore. Tra particolare e universale, c’è un problema di vasi comunicanti: il populismo svolge questa funzione. Non è un caso che Laclau guardi con interesse ad alcune esperienze politiche latinoamericane, espressioni di movimenti sociali e culture «progressive» che hanno fatto tesoro della «ragione populista».

Analisi decisamente controcorrente, la sua. Che ha il pregio di confrontarsi con fenomeni sempre più diffusi. Il suo limite sta nella riduzione del sociale a una somma indistinta di particolarismi.