Oggi tra quelle mura non c’è più nessuno, centinaia di «pizze» giacciono impolverate sugli scaffali, e i costumi, gli arredi, le scenografie di glorie passate sono abbandonate alla distruzione. A salvarli gli stabilimenti dell’Avala Film, l’orgoglio della Jugoslavia socialista qualcuno dei vecchi protagonisti di quell’avventura ci ha provato senza successo. E del resto non esiste più neanche la Jugoslavia cancellata dalla feroce guerra civile degli anni Novanta. Cinema Komunisto comincia qui, anzi ancora prima, negli anni della seconda guerra mondiale e della resistenza partigiana guidata da Tito contro i nazisti che diventerà uno dei miti fondatori del nuovo Paese in cui il cinema occupa un ruolo centrale: la sua storia coincide con quella nazionale, e con la costruzione della sua mitologia. Immagini di giovani sorridenti, di partigiani eroici che lottano a prezzo della vita contro i nazisti, di ragazzi e ragazze pronti a ogni sforzo per affermare il sogno del socialismo e di un futuro luminoso. «Che ora è?» – chiede il partigiano al suo compagno in uno dei moltissimi film sulla guerra- «É l’ora di fare la rivoluzione!».

 
Alla fine della guerra si deve ricostruire, le immagini celebrano i kilometri di ferrovie, hanno il ritmo dei musical e del ballo delle canzoni che inneggiano al valore di Tito e della Resistenza, i ragazzini ballano nelle celebrazioni con i fazzoletti rossi salutando la meraviglia del nuovo, di una realtà grandiosa che sfida ogni giorno lo scetticismo dei borghesi.

 
Mila Turajlic la regista di Cinema Komunisto che arriva in sala domani – per chi sta a Roma giovedì sera, ore 20.45, proiezione alla Sala Trevi con lei, Gianni Amelio, e Gordana Miletic De Santis, attrice e vedova di Giuseppe De Santis, di cui verrà presentato La strada lunga un anno girato in Jugoslavia – fa dunque del cinema il centro narrativo della Storia jugoslava fino alla morte di Tito, e filmandone le macerie anche degli anni successivi.

 
Tito era cinefilo, aveva un proiezionista personale, Leka, rimasto accanto a lui fino alla fine, temutissimo da produttori e registi, i suoi giudizi infatti erano sempre quelli del presidente. In una sala privata, nella sua residenza devastata dai bombardamenti del 1999, ha proiettato per lui migliaia di film, ogni sera un titolo diverso. Amava Kirk Douglas e John Wayne, e leggeva ogni sceneggiatura con particolare predilizione per i film di partigiani. «Se ne giravano moltissimi e spesso davvero brutti» ricorda Veljko Bulajic, il regista di La battaglia della Neretva (’69) che venne candidato all’Oscar come miglior film straniero. Per realizzarlo Tito diede il suo completo appoggio, tutto senza effetti speciali compresa la distruzione di un ponte.

 
Ma che Paese è la Jugosalvia del dopoguerra? Nel ’47 Tito lancia il progetto degli studi cinematografici Avala Film, una Cinecittà a Belgrado che ha l’obiettivo di produrre una cinquantina di film all’anno. La sfida è gigantesca e i costi sono troppo grandi. Intanto la situazione politica cambia, nel ’48 Tito rompe con Stalin, e nelle sale i film americani sostituiscono quelli sovietici. All’Avala Film arriva Ratko Drazenic, sono gli anni Sessanta di vacanze al mare, ragazze in Vespa, bikini,e allegria diffusa. Vero? Falso?

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Oggi ammette Bulajic si preferisce ricordare la dolcezza e l’allegria di quando «i ragazzi avevano un futuro e facevano l’amore». L’Avala diviene un polo di produzione internazionale, grandi coproduzioni e star mondiali: il Marco Polo e Hitchcock, Sofia Loren e Carlo Ponti, Orsono Welles e De Santis L’immagine del Paese sono i viaggi di Tito in America, col cappello texano. «Eravamo benvoluti in tutto il mondo» dicono Bulajic, l’attore simbolo del genere partigiano, Bata Zivojinovic, l’operatore Djuric, cacciato da Avala perché voleva mostrare anche « i lati negativi del comunismo», Teva Petrovic che si occupava delle relazioni con gli stranieri – «parola d’ordine: fargli sempre credere di essere a Hollywood».

 
Viene lanciato il festival di Pola nell’antica arena con uno schermo all’aperto, l’isola di Brione dove Tito passa le sue vacanze è lì vicino, e le stelle del cinema sono invitate nella sua residenza. Sembra una realtà spensierata, e effervescente, ma questa è la sua versione ufficiale. Cosa c’è dietro a quelle immagini, cosa rimane fuoricampo? «Nema Problema». I registi stranieri lo ricordano come un mantra per minimizzare ogni difficoltà: c’è bisogno della neve e fa caldo? Nema problema. Ma «Nema problema» è anche la formula con cui si cancella ogni accenno a una crisi, ai conflitti interni, a quel nucleo di contraddizioni irrisolte che esploderanno appena dieci anni dopo la morte di Tito (1980) nella guerra.

 
Il Paese «reale» in quelle immagini non c’è, o meglio se ne celebra solo una parte – quello che per chi racconta appartiene adesso alla distanza del ricordo – la mitologia, e ciò che di bello ha prodotto. Forse anche per questo la regista ha scelto di rimanere sui bordi «istituzionali» dell’immaginario, non ci sono, ad esempio, le immagini di un grande regista come Dusan Makavejev, espulso dal partito per la sua critica eroticamente irriverente ai dogmi e costretto a emigrare in Francia. Nessuno ne parla, ovvio, nemmeno oggi. Eppure il suo sarebbe un controcampo illuminante.