«La VR è una forma di apprendistato. Più se ne vede più si progredisce nel suo uso. Chi si trova a proprio agio nella VR sono di solito i ragazzi o i bambini di dieci anni abituati ai giochi video.Mi piace realizzare VR per un pubblico giovane senza però utilizzare la violenza o la competizione, preferisco il sogno, l’immaginazione, il volo. E credo che sia un buon momento per creare nuove realtà», dice Laurie Anderson presidente della giuria (con Francesco Carrozzini, Alysha Maria Naples) per la terza edizione di Venice Vr – allestita nei magnifici spazi del Lazzaretto Vecchio fino a sabato 7 settembre. E della materia dei sogni è fatta la sua To the Moon – Fuori concorso, un Best of delle VR nel mondo – che Anderson ha realizzato come tutti i suoi lavori VR, compreso Chalckroom, vincitore del premio Best VR Experience aVenezia 74, insieme a Hsin – Chien Huang (di cui viene presentato il nuovo Bodyless). Indossando il casco ci viene detto che siamo pronti per volare sulla luna, un volo senza astronavi, in bianco nero, durante il quale i movimenti delle nostre braccia decidono la velocità, se puntare in alto o procedere lateralmente, cosa afferrare dei frammenti di meteorite che volteggiano nello spazio, dove lasciarsi trasportare mentre affiorano suggestioni del nostro mondo. In alto appare la parola «Democracy», le bandiere piantate sulla luna hanno le stelle e strisce dell’America e la falce e il martello dell’Urss, astronauti e cosmonauti: forse quella figura che si perde nell’infinito come le fantasie lunari tra ambizioni e desideri di nuove conquiste? Linguaggi, frammenti di parole, numeri, la voce che ci guida… In un doppio concorso, Interattivo e Lineare, Venice VR mostra come in pochi anni (siamo alla terza edizione) la consapevolezza di questo nuovo linguaggio sia cresciuta nella capacità di utilizzare forme e dispositivi diversi rispetto a quanto si racconta.

To the Moon di Laurie Anderson

E SIANO SPUNTI di realtà storica o contemporanea, siano sperimentazioni di «tecniche» più complesse, siano storie alla prima persona la scommessa è giungere a una immagine VR che ne sappia restituire la materia e, al tempo stesso, sia capace di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza a più livelli.
Scorrendo le diverse «sinossi» i progetti nella competizione di quest’anno si muovono su una doppia linea, quella intima e quella più pubblica entrambe come strumento per confrontarsi con il nostro tempo, le sue contraddizioni e la fragilità dell’umano. Accade in These Sleepless Nights di Gabo Arora installazione in cui gli spettatori interagiscono con i protagonisti, le migliaia di persone che in America perdono la casa. «Sono figlio di genitori immigrati in America alla ricerca di libertà. Mentre il sogno americano esiste per alcuni è assolutamente fuori dalla portata di altri» scrive nelle note al suo lavoro Arora. Per lui, «artista immersivo» l’urgenza è dunque portare chi guarda laddove le cose accadono, accanto a chi le vive quotidianamente, chi in un attimo si è trovato in strada senza più nulla con tutta la famiglia. Un sistema feroce indagato attraverso statistiche, testimonianze, vissuti. Anche Hsin- Chien Huang si ispira alla realtà, il suo Paese, Taiwan, negli anni settanta della legge marziale quando lui era ancora un bambino.

IL MODO per restituirlo passa però in una dimensione fantastica, il personaggio di un vecchio criminale che viene sottoposto a degli esperimenti in prigione, e quando muore si trasforma in un «fantasma» digitale. La sua vecchia casa è vuota, i ricordi sono stati cancellati, il paesaggio intorno anche lui è inghiottito nella texture immateriale, e in questa sparizione l’artista crea un cortocircuito tra passato e presente, tra una memoria dittatoriale e una tecnologia del controllo.

C’È UNA STRANA creatura che ti accoglie anche nella stanza di The Key di Celine Tricart che l’autrice definisce una «story-living» con cui usare l’interattività senza ostacolare l’emozione. La ragazza spiega al visitatore che non ricorda nulla chiedendogli di accompagnarla tra le visione che ogni tanto balenano nella sua mente al cui centro c’è una misteriosa chiave. Quello che appare come un viaggio in una dimensione fantastica, quasi di fantascienza, tra momenti felici, amici, serenità e un’ improvvisa violenza, qualcosa che divora tutto, brucia, devasta, creature mostruose in una terra di sfruttamento e di solitudine. Pian piano la voce ci dice che inizia a ricordare: cosa è accaduto? Siamo in un pianeta fuori dal tempo o siamo sulla terra? Intorno a noi tutto è carbonizzato, le creature sorridenti sono sparite. E poi? Sofferenza, ancora, tristezza, paura. All’improvviso l’immagine cambia: Non dirò cosa accade ma questa ricerca si intreccia strettamente alla nostra realtà, parla di chi ha perduto tutto, di chi è stato costretto a lasciare la propria casa, portandosi dietro la chiave per tutta la vita anche se non vi tornerà mai più. Con delicatezza la regista ci fa sentire uno stato d’animo, quello che i razzismi di oggi continuano a occultare, e che è universale, fuori dal tempo, dentro un costante presente.

The Waiting Room di Victoria Mapplebeck

E SE FILMARE la propria malattia fosse scaramantico? Victoria Mapplebeck, artista, autrice di The Waiting Room è partita da qui, filmando la sua malattia, un cancro al seno, dalla diagnosi alla guarigione per esplorare come dice lei stessa la malattia e la mortalità dal punto di vista del paziente. Ci porta dunque nel suo corpo, tra le cellule che si sono moltiplicate – mammografia e ultrasuoni, interno e esterno con immagini generate al computer – fino alla sua ultima seduta di radioterapia ripresa a 360° che «assorbe» chi guarda in una situazione molto «privata», quasi come se fossimo con lei nel macchinario, quasi a coincidere col suo corpo e al tempo stesso continuando a essere spettatori. Non c’è retorica nell’affrontare questo percorso di cura attraverso il quale si delinea la riflessione sul rapporto col corpo, i suoi limiti, le sue incertezze.