Nei messaggi mandati agli ospiti i giorni prima dell’apertura del Festival affiorava fatica, attenzione ma anche (o forse soprattutto) la felicità di potersi ritrovare finalmente «dal vivo» – con tutte le precauzioni obbligate, mascherine, distanziamento – lontani dalle luci dure dei computer, dei tablet, degli smartphone o della tv che in questi mesi sono divenuti i mezzi di visione del cinema, e finalmente in sala, davanti a uno schermo.
Fid Marseille, il festival del documentario – anche se la definizione è ormai un po’ ristretta – che si è aperto ieri con un omaggio a Michel Piccoli, ha scelto dunque la forma in presenza dopo una prima parte online col FidLab, il laboratorio di produzione dove progetti ancora aperti possono trovare partner produttivi o sostegni necessari per essere ultimati – tra i vincitori, Baumettes di Sharon Lockhart; La vie des hommes infames di Marianne Pistone e Gilles Deroo; Krakatoa di Carlos Casas; The Goddamn Particle di Mill Pecherer; A portrait di Sofia Bohdanowicz; Xiao Li di Maya Kosa e Sérgio da Costa; Ollin Blood di Elise Florenty & Marcel Türkowsky.

FORMATO un po’ ridotto per numero di titoli e di giornate, il festival diretto da Jean Pierre Rehm – che andrà avanti fino a domenica 26 – presenta comunque cinquanta titoli di cui quarantasei in prima mondiale suddivisi tra concorso internazionale, francese , opere prime e il neonato Flash, per film «degeneri» in durata e formati che inaugura anche il premio Alice Guy riservato a una cineasta. A cui si aggiunge il focus su Angela Schanelec con otto film da lei presentati, tra le figure nel «cinema tedesco contemporaneo» più singolari, autrice che esplora la contemporaneità attraverso paesaggi emozionali e gesti che diventano racconto dell’animo.
Che Festival sarà questo Fid numero 31 è presto per dirlo, bello come sempre, emozionante e non solo per essere il primo a tornare in sala rioccupando lo spazio pubblico che la pandemia sembrava avere ristretto con gli incontri perduti nell’iperspazio dei vari zoom.
Le relazioni sono il punto di partenza anche di Kiyé Simon Luang che per il suo Goodbye Mr.Wong torna nel Laos, dove è nato, sulle rive del lago Nam Ngum lungo le quali si intrecciano le vite di diversi personaggi, una ragazza di cui sono innamorati due uomini, e una coppia francese che si è separata un anno prima.

FRANCE, questo il nome della giovane donna protagonista, aiuta la madre nell’impresa familiare ma un miliardario locale, Mr.Wong, ha intenzione di trasformare la zona in un luogo turistico, un progetto devastante per l’ambiente, la natura, la vita dei villaggi, le persone che li abitano e le loro economie. Tra i suoi piani c’è anche quello di sposare France che invece è innamorata di un ragazzo che lavora per lui.
Kiyé Simon Luang dice che per lui girare in Laos è una «scelta politica». Arrivato nel 1976 in Francia, quando aveva dieci anni, ha iniziato a fare film proprio a Marsiglia con il collettivo Film flamme impegnandosi al tempo stesso per far rinascere il cinema nel suo Paese dove non ci sono scuole, mancano i mezzi produttivi e di circuitazione delle opere: «È qui che dobbiamo stare» dice. Goodbye Mister Wong entra profondamente in quella realtà nella forma di una narrazione che al racconto lega il presente, lo stato fragile di una società in balia di altri sistemi più potenti, a cominciare dalla vicina Cina, la cui presenza nelle economie del Laos è diventata sempre più forte – «Il cinese è la lingua del business» dice il regista.

E nel paesaggio attraversato dalle barche e dai battelli che solcano il lago lentamente, dalle figure di chi vi appartiene e dal movimento delle loro vite, l’immagine in 16 millimetri dell’autore prova a catturare gli sforzi di una resistenza, il sottrarsi forse impossibile alla violenza delle economie, alla scomparsa della storia.

INTORNO a una memoria dell’acqua si muove anche Pajeù titolo ispirato a un fiume che il regista, Pedro Diogenes definisce «un simbolo» della sua città, Fortaleza, dove il film è ambientato, e della sua tendenza a rimuovere ogni elemento del passato, nell’alternanza incessante tra crescere e scomparire. Il Pajeù infatti negli anni è praticamente sparito, prosciugato dall’inquinamento e dalla speculazione, e dimenticato da tutti. È qui che la protagonista, Maristela (Fatima Muniz) comincia a vedere strane creature: chi sono? Cosa cercano di dirle? Quale è la loro origine e il motivo della loro presenza? Hanno un aspetto mostruoso, sono visioni da incubo che rimbombano con suoni stridenti, mentre giorno dopo giorno la vita della ragazza è sconvolta; le apparizioni la tormentano, le fanno male, sembrano inghiottire il quotidiano nel sogno fino a confondere sempre di più le due dimensioni. «Il Brasile sta vivendo un periodo terribile, la democrazia è minacciata da un governo di estrema destra che è nemico dell’istruzione, dell’ambiente, delle arti, delle scienze, dei popoli indigeni, delle donne, dei neri, dei poveri. Siano tutti a pezzi e perduti in questa violenza, tra le menzogne, i pregiudizi, la distruzione. Il cinema brasiliano ne è un esempio: la nostra sensibilità è stata distrutta, e come i personaggi che narro cerchiamo disperatamente di ritrovarci» dice il regista nell’intervista sul sito del festival.

QUESTO sentimento di oppressione costante è la materia più forte delle sue immagini, il terrore della ragazza come la sua solitudine – o meglio ancora il suo isolamento – sono i segni di un pericolo costante, di una rabbia che non trova una condivisione, di un sentimento collettivo a cui il regista prova a dare voce. E la ricerca di una «forma» in cui restituire il nostro tempo e i suoi conflitti sembra essere la «bussola» che guida le scelte del Fid, a partire da un corpo a corpo con la realtà che negli sguardi del festival mette al centro l’esigenza di oltrepassare il soggetto a favore dell’invenzione: l’essenza stessa del gesto di filmare.