L’ingresso degli studi della Sun, all’incrocio tra Marshall e Union Avenue, dove un giorno Bob Dylan si inginocchiò per baciare il pavimento in segno di rispetto, è piccolo e anonimo, evidenziato da una chitarra Gibson gialla in formato gigante che ruota instancabile sopra la porta.

La fama, invece, è infinita. Perché in questo vecchio edificio di mattoni rossi di due piani una manciata di chilometri fuori downtown Memphis, un ragazzo bianco dell’Alabama a cui sarebbe piaciuto fare l’avvocato per difendere gli oppressi del mondo diede il via, inconsapevolmente, alla più grande rivoluzione musicale della storia. Che cambiò in maniera permanente «la faccia della cultura popolare americana», per usare le parole di Jimmy Carter.

Se esiste un uomo senza il quale «la rivoluzione musicale che prese piede in America sia difficile da immaginare questa persona si chiama Sam Phillips», scrisse nel 1971, nel libro Feel like going home, il critico musicale Peter Guralnick, autore tra l’altro della straordinaria e definitiva biografia su Elvis, pubblicata in 2 volumi.

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Ora, a distanza di quasi un cinquantennio, come a chiudere il cerchio, l’autore americano torna a raccontare, con una dettagliatissima biografia, genere in cui gli anglosassoni sono ancora maestri, la storia di Sam Phillips (The man who invented Rock’n’roll, Little Brown), un incosciente ragazzo che non aveva pianificato di cambiare il mondo ma che fu in grado di trovare la contaminazione perfetta tra Blues, Gospel e Country music, dando vita ad uno strano e ibrido sound in seguito chiamato rock&roll.

«Sam non era un produttore tradizionale, parola che disprezzava», racconta Guralnick, ma una sorta di esploratore, un visionario determinato a dare voce a chi non l’aveva mai avuta. Uno che agli inizi degli anni ’50 invece di discutere sulla «separazione fisica della razza», un’espressione allora sulla bocca di tutti, specialmente nella zona del Mississippi e del delta del Blues, preferiva parlare di «integrazione delle loro anime».

Nato e cresciuto a Florence, paesotto di campagna al confine con Mississippi e Tennessee, il più giovane di otto figli, Sam Phillips abbandonò gli studi di giurisprudenza e le sue ambizioni legali alla morte del padre e all’età di 22 anni si trasferì a Memphis, un luogo che all’epoca faceva impallidire Harlem per la sua vivacità.

Come disse una volta B.B. King, che erano nato «nel posto più meridionale del mondo», dove l’unica forma di evasione era quella di ascoltare il suono dell’armonica di Sonny Boy Williamson, «il suo ritmo era talmente trascinante che ti faceva dimenticare la tristezza trasmessa solo qualche secondo prima», arrivare a Memphis era come oltrepassare l’oceano e atterrare a Londra o Parigi.

Phillips trovò subito lavoro alla Wrec, la stazione radio dove faceva il dj dall’ultimo piano del Peabody Hotel, il più elegante albergo della città, aperto nel lontano 1869 dal magnate Robert Brinkley per farne il più lussuoso ritrovo del Sud, dove un tempo era di casa anche il generale Lee, il celebre comandante delle Forze Confederali durante la Guerra Civile Americana.

Il ragazzo però si accorse ben presto di essere un modesto musicista. Ma era dotato di una sensibilità non comune nel comprendere le qualità altrui o nell’individuare potenzialità vocali o ritmiche apparentemente inesistenti.

Così, dopo 4 anni di esperienza alla radio, dove si era anche specializzato come ingegnere del suono, nel 1949 affittò per 150 dollari al mese un magazzino al 706 di Union Avenue, lo trasformò in una sorta di ufficio e nel gennaio successivo aprì, un po’ in sordina, lo studio di registrazione Memphis Recording Service, accompagnato dallo slogan «We record Anything – Anywhere – Anytime».

Con un registratore portatile Presto PT 900 infilato nella macchina, e tanta voglia di dimostrare che la sua idea non era così folle come allora tutti, o quasi, pensavano, il ragazzo aveva iniziato a registrare ogni tipo di evento, a cominciare da matrimoni e funerali. Ma la sua ambizione era di dare la caccia a quei musicisti locali che suonavano il blues, ma anche la musica gospel o spiritual, e che non avevano un posto dove andare. «Sapevo, o sentivo di sapere che probabilmente esisteva un pubblico più numeroso per la musica blues, oltre a quello tradizionale dell’uomo di colore del mid South». Era la spontaneità del modo di fare musica, e non la tecnica in quanto tale, ad attirare la sua curiosità e il suo interesse.

In quegli anni Sam Phillips inizia a registrare bluesman che in seguito diventano famosi, come B. B. King, Rosco Gordon e Chester Burnett, in arte Howlin’ Wolf, cedendo poi i diritti ad alcune etichette indipendenti, come ad esempio la Chess di Chicago.

«Lo spettacolo più grande che potreste vedere oggi sarebbe osservare Chester Burnett che fa una delle sessioni nel mio studio – ha raccontato Phillips a Escott e Hawkins, autori di Good rockin’ tonight – Dio, come varrebbe la pena vedere il fervore del suo viso quando canta. Gli si illuminavano gli occhi, potevi vedere le vene sul collo e, amico, non c’era niente nella sua mente eccetto quella canzone. Lui cantava con la sua dannata anima».

In seguito «Chester big foot», così soprannominato per la smisurata lunghezza dei suoi piedi, si trasferì a Chicago, raggiungendo Muddy Waters e il Chicago blues sound, mentre Sam Phillips proseguì la sua personale opera di sperimentazione musicale che lo portò a registrare, nel marzo del ’51, Rocket 88 (omaggio a un tipo di oldsmobile molto in voga all’epoca), un rhythm and blues da molti considerato come la prima canzone rock and roll della storia.

Vista l’importanza storica attribuita al brano, cantato da Jackie Brenston, il sassofonista dei Kings of Rhythm, la band guidata dal pianista e dj Ike Turner (autore del testo), non poteva certo mancare intorno alla canzone un sapore di leggenda.

Si racconta infatti che nel viaggio della band in macchina da Clarksdale verso Memphis lungo la Highway 61 a un tratto dal tettuccio della macchina cadde giù a terra l’amplificatore. Così, per provare a sistemare l’altoparlante che si era rovinato, una volta arrivati al Memphis Recording Service, Phillips vi infilò della carta da giornale, in un ispirato tentativo di salvarlo, ma non fece altro che amplificarne la distorsione, anziché smorzarla. In seguito Rocket 88 sarebbe divenuta celebre come uno dei migliori pezzi rock’n’roll mai incisi.

Quella canzone, aggiunse Phillips più avanti negli anni, «diede il via a un allargamento della base musicale e di fatto aprì i mercati alla nostra musica locale».

Confortato dai primi successi e dal presentimento che qualcosa stesse realmente cambiando nell’immaginario popolare e nella cultura musicale, seppur ancora condizionata dai forti pregiudizi razziali, il passo successivo fu la nascita di una propria etichetta discografica, la Sun Record, che Phillips aprì agli inizi del ’52 nello stesso locale della Memphis recording service.

Una scelta che oggi può apparire persino banale ma che all’epoca rientrava nella categoria dell’azzardo puro, considerato che Memphis era associata al blues nella stesso romantico modo in cui New Orleans lo era al jazz: luoghi meravigliosi entrambi, dove ascoltare ottima musica o scoprire giovani talenti ma dove nessuno avrebbe scommesso un dollaro sul successo di un’etichetta discografica con aspirazioni nazionali.

Ma forse il ragazzo dell’Alabama era solamente capitato «nel posto giusto al momento giusto». Che arrivò un po’ a sorpresa in una calda giornata estiva del 1953 quando un ragazzo di nome Elvis, l’acne sul collo e le lunghe basette nere, talmente timido e introverso da risultare coraggiosissimo, fece il suo ingresso alla Sun, chiedendo di registrare qualcosa per il compleanno della madre. Sam Phillips aveva finalmente trovato il suo uomo, il rock’n roll avrebbe scoperto il suo profeta. E il resto è storia.

«Non vi era alcun dubbio che quello sarebbe stato il futuro, una musica rivoluzionaria che teneva insieme un suono apparentemente grezzo ma in grado di sprigionare un senso quasi apostolico di esuberanza e di gioia«, scrive Peter Guralnick. Dall’arrivo di Elvis Presley infatti la Sun non fu più un’etichetta blues, ma la principale casa discografica del rock’n’roll bianco.

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Johnny Cash, singolare coincidenza, arrivò in città proprio il giorno in cui Elvis stava registrando quella che sarebbe diventata la sua prima hit di successo. Appena 22enne, alto, dinoccolato, proveniva da un paesino dell’Arkansas di nome Dyess e cercava di tirare avanti facendo il venditore porta a porta per la Home equipment Company, anche se si dice che fosse il peggior rappresentante della storia di tutta la compagnia. Si presentò da Sam Phillips come un bravo ragazzo che faceva gospel, con la sua voce aspra e le canzoni religiose, e ne uscì con il più innovativo sound country dai tempi della morte di Hank Williams.

Percorso in fondo non così lontano da quello di Jerry Lee Lewis, che arrivò a Memphis con il padre Elmo partendo dalla Louisiana, dopo aver venduto, per pagarsi il viaggio, tutte le uova della piccola fattoria che possedevano. Ventuno anni, anche se ne dimostrava meno, già un matrimonio alle spalle, faccio pulita, lunghi capelli pettinati all’indietro, bussò al 716 di Union Avenue con un’ombra di follia negli occhi e la presunzione di suonare il piano, almeno così diceva, come Chet Atkins maneggiava la chitarra. Sam Phillips scoprì presto che il ragazzo non raccontava bugie.

«Avevo talmente fiducia nelle persone che sarei stato il più grande codardo della terra a non provarci neanche», si scherniva Phillips quando qualcuno provava a ricordargli che cosa era riuscito a combinare.

Uno così, disse una volta Paul Ackerman, l’editor di Billboard, «può essere solo un pazzo o un genio, ma niente nel mezzo». Forse Sam Phillips è stato entrambe le cose.