Le guerre americane del nuovo millennio – quella in Afghanistan e soprattutto quella in Iraq – hanno alimentato una copiosa produzione letteraria che attraversa tutti i generi, da quelli classici (racconto autobiografico, romanzo, teatro, poesia) alle nuove forme del blog e della video narrative. Scritti o prodotti, in massima parte, da soldati, questi testi hanno un indubbio valore documentario e sociologico, ma sono spesso prevedibili e ripetitivi.

Ciò non toglie che siano uscite anche opere di notevole spessore, osannate dalle recensioni e paragonate a quelle dei grandi scrittori di guerra di tutti i tempi, da Hemingway a Remarque, da Norman Mailer a Joseph Heller, da Stephen Crane a Tim O’Brien.

Tra i testi che si sono guadagnati recentemente la fama di classici si contano The Yellow Birds, di Kevin Powers (tradotto con lo stesso titolo da Einaudi) e vincitore dello Hemingway Foundation/Pen Award; Redeployment, di Phil Klay (pubblicato da Einaudi con il titolo Fine missione) e vincitore del National Book Award; Billy Lynn’s Long Halftime Walk, di Ben Fountain (È il tuo giorno, Billy Lynn!, uscito da Minimum fax), che ha ricevuto il National Book Critics Circle Awards.

Mentre sul fronte della poesia, Brian Turner ha venduto venticinquemila copie con Here, Bullet, la sua prima raccolta di liriche sul conflitto iracheno, e ha riprodotto il suo successo con il secondo libro, Phantom Noise: in entrambe le occasioni i suoi versi sono stati accostati a quelli di celebri poeti-soldato della tradizione inglese e americana come Wilfred Owen, Randall Jarrell, Yusef Komunyakaa e Bruce Weigl.

Prima ancora di mettere in discussione l’indubbio talento di questi scrittori, vale la pena chiedersi in quale misura i loro testi contribuiscano a proiettare una luce critica sulla retorica imperiale e sulla pratica dell’occupazione che dei conflitti descritti sono l’indispensabile premessa.

Come testimoni di guerre combattute in paesi stranieri, quale rappresentazione dei popoli e delle culture incontrate ci offrono questi scrittori nelle loro opere? Li possiamo considerare consapevoli del proprio compito di traduttori e mediatori interculturali, o dobbiamo constatare come, al di là di una generica denuncia dell’insensatezza della guerra, finiscano col riprodurre quello sguardo «orientalista» che Edward Said ha identificato come uno dei peccati originali della scrittura occidentale?

Stando a una serie di saggi apparsi sulla rivista online Jadalyya, a firma dell’arabista americano Elliot Colla e del critico, poeta e romanziere iracheno Sinaan Antoon, la stragrande maggioranza della letteratura statunitense sulle guerre medio-orientali è una embedded literature. Come avviene nel giornalismo «arruolato» – ha scritto Colla – «l’invasione e l’occupazione dell’Iraq sono presentati quali eventi esclusivamente americani. Gli iracheni sono in massima parte assenti. Il tormento e la sofferenza, e dunque l’umanità, sono appannaggio dei soldati statunitensi piuttosto che dei civili iracheni. Si, la guerra e le sue ragioni sono messe in discussione, ma in modo assai limitato».

Forse è esagerato, continua Colla, definire questo nuovo modello di letteratura «un complesso militare-letterario», come se dietro vi fosse qualche oscura regia. È però indubbio che solo certi libri finiscono in vetrina, vengono pubblicizzati e premiati, così come è un fatto che di tanti scrittori non americani (iracheni, afghani, siriani) pochissimi vengono tradotti mentre gli altri restano ignorati.

Comunque si giudichi il romanzo di esordio di Elliot Ackerman, che in Iraq e in Afghanistan ha a lungo combattuto, e che attualmente vive a Istanbul, dove lavora come giornalista, gli si deve riconoscere il suo anticonformismo: Prima che torni la pioggia (in uscita da Longanesi, traduzione di Elisa Banfi, pp. 320, euro 14,36) è interamente raccontato da Aziz, un giovane afghano che, dopo aver perduto i genitori, deve prendersi cura del fratello mutilato in seguito a un’esplosione nel mercato dove i due cercano di guadagnarsi da vivere, mentre le forze statunitensi hanno già invaso il paese.

Il titolo originale del romanzo, Green on Blue, fa riferimento agli attacchi che i soldati dell’esercito regolare afghano conducono talvolta «a tradimento» nei confronti degli occupanti, ma nelle vicende narrate gli statunitensi sono completamente assenti, ad eccezione dell’elusivo consigliere militare Mr. Jack.

Aziz si arruola nella milizia Special Lashkar, sia perché solo la sua paga di soldato può coprire le costose cure ospedaliere del fratello Ali, sia perché intende vendicarsi di Gazan, il signore della guerra responsabile dell’attacco al mercato. Aziz deve dunque fare i conti tanto con gli imperativi del pashtunwali, il codice di comportamento ancestrale che lo obbliga al badal – alla vendetta – quanto con considerazioni pragmatiche, perché la «sua» guerra non coincide necessariamente con quella combattuta dalla milizia.

Ackerman rappresenta con grande efficacia una realtà storica, sociale e militare nella quale il confine tra amico e nemico è quanto mai labile, e le violenze si susseguono in base a logiche scarsamente intellegibili. Motore supremo, la «madre guerra» è in grado di dispensare sofferenze e sollievo, morte e vita.

Se il romanzo a tratti assume, come è stato notato, le tinte del noir, è soprattutto perché il mondo descritto da Ackerman, come i personaggi che lo abitano, sono dominati da forze oscure e incontrollabili, risucchiati in una violenza senza fine alla quale non è possibile sottrarsi se non, paradossalmente, alimentandola. In questo scenario, la presenza degli americani è in larga misura superflua, e non certo perché non abbiano le loro pesanti responsabilità, ma perché, per quanto si illudano di controllare alleanze e fronti di combattimento, sono loro stessi pedine di un gioco le cui regole sistematicamenti li scavalcano.

Certamente, Ackerman corre un rischio nell’assumere una voce e un punto di vista pashtun, ma le lodi tributategli dallo scrittore di origine afgana Khaled Hosseini, secondo cui l’universo del romanzo è credibile e convincente, inducono a pensare che questo azzardo narrativo sia stato premiato. Piuttosto, si potrebbe eccepire, come ha fatto Tom Bissell sul New York Times, che in certi frangenti dietro la voce di Aziz – dietro la sua sensibilità, le sue osservazioni, le sue scelte linguistiche – si avverte la presenza di un «narratore letterario», osservazione che tuttavia si potrebbe estendere a molti scrittori della scena moderna.

Cambiando prospettiva, quel che si può imputare a Ackerman è un eccesso di pessimismo. Persino sentimenti nobili come l’affetto per un fratello, o l’amore che Aziz prova per Fareeda, la nipote del capo villaggio, sono contaminati dall’economia della guerra.

Paradossalmente, la sola visione di un futuro che vada al di là del conflitto è affidata al ricordo: ne è protagonista Mumtaz, uno dei personaggi più significativi del romanzo, che coi suoi racconti rievoca un tempo «in cui le cose erano diverse da come sono ora» o in cui la guerra (contro l’invasione sovietica) sembrava avere un senso. Mumtaz ora vive in condizioni miserrime, ma su di lui «la guerra non ha più presa»: ha smesso di credere nella vendetta. E questa è la sola speranza che Ackerman sembra disposto a concederci.