Con grande lungimiranza, tutto, nel libro di Gianluca De Fazio, Ecologie del possibile. Razionalità, esistenza, amicizia, prefazione di Ubaldo Fadini (ombre corte, pp. 113, euro 10), parte da una ridefinizione dell’Altro, del suo posto in relazione a un noi sotto recinzione. Il tema è epocale: le macerie della inerzia delle passioni germogliative, cominciando dall’amicizia, sono ovunque e ci soffocano. Ci mancano le parole e le idee, perché sentiamo assordanti il piagnisteo dell’assenza di vie di fuga. Le premesse, qui, sono nitide: senza amici non si può fare ecosofia; l’ecologia filosofica non si muove se non a partire dalla tutela di una finalità senza scopo che spetta a ogni atto di creazione; la creazione è sempre abitare un margine di gioco.

IN QUESTO LAVORO, agile ma profondo, si mette al bando l’idea che la corretta allocazione della relazione noi/mondo, noi/natura, noi/altro sia un processo banale e non la sfida, enorme, di decostruzione di posture e ricostruzione di pratiche che ci appare. Il libro scandaglia quel che di fecondo c’è sempre nelle intuizioni del duo della filosofia splendente, Deleuze-Guattari, riapre gli occhi alla indicibile dolcezza di Merleau-Ponty, riporta sulle spiagge di questa passeggiata le sontuose fughe nell’indetto di Wittgenstein e tratta con la letteratura scientifica, che, tra antropologia ed ecosofia, interroga il presente.

SNOBBA L’APOCALISSE, che presta il suo fianco mortifero agli inoperosi del possibile, e ci restituisce, con grande garbo, la memoria della trama affettiva delle istituzioni, che sono sempre architettura costruite «con intelligenza, con stupidità», e con immaginazione, che viene ricondotta ad essere la parte che lega l’anelito razionale e quello istintuale. Nessun campo è il male di per sé, semplicemente perché nessun campo è slegato. Questa interdipendenza viene affermata indomitamente da più lati e ci allontana dai pericolosi dualismi. Sono quelli che mascherano l’impossibilità di pensare se non per opposizioni, che vedono tutto in termini di rivalità, che fanno della rivalità la lingua delle cose. Io o l’altro significa, ci dice De Fazio, disertare il «chiasma» che abbiamo ereditato dallo sguardo Merleau-Ponty sulla inestricabile e ambivalente natura delle cose.

Che non attraversa solo il fuori, ma che divide prima di tutto noi stessi, che rimaniamo divisi, o, per dirla meglio, rimaniamo chiasticamente divisi e uniti a noi e chiasticamente divisi e uniti al mondo. «Il fuori – scrive – è ciò che conduce alla disperazione, al terrore, allo straniamento. Questa tristezza, per riprendere un gergo spinoziano, ha come contraltare una concezione paternalistica del dentro, dell’interiorità. Il corrispettivo dello straniamento è una concezione missionaria della relazione con il fuori. Il fuori è qualcosa che deve essere salvato».

C’È, IN QUESTO PASSAGGIO del libro di De Fazio, una dichiarazione importante. Si tratta della mai scontata messa in guardia dal terrorismo della morale. Un tranello potenzialmente offensivo e facilmente azionabile quando si parla di uomo e natura al tempo della pandemia annunciata e ignorata dalle ragioni del capitale. Ripercorrendo Umanismo e terrore di Merleau-Ponty, De Fazio ci ricorda che «l’umanismo diviene terroristico nel momento in cui non vi è più spazio per la contingenza e l’ambiguità, quando l’umano è stato predeterminato a priori ed è giudicato a partire dalle categorie del pensiero invece che compreso nella sua situazione. Un umanismo senza margini di gioco è un umanismo del terrore che ha cessato di essere forza trasformatrice per diventare una politica morale dell’adeguamento a un dover essere che è stato deciso in partenza».

È certo che nell’avventura del possibile non ci andremo leggeri se ci andremo oppressi nel cuore e nella mente, se vedremo nel cielo stellato non qualcosa di cui godere ma qualcosa di cui patire. È certo, come ci avverte con acume De Fazio, che l’avventura come sfondo va sottratta all’uso monopolistico che ne fa la retorica dell’impresa: gli affari sembrano essere l’unica giungla dove si è legittimati a rischiare. È certo che l’ontologia della differenza non merita di essere imbalsamata in una cantilena scontata.

È, INVECE, NECESSARIO riabilitarla a ogni passo, per sentirla sempre tremante e viva. Ed è certo che solo partendo, per l’appunto, alla volta di una avventura, senza troppi pesi e senza sapere già con esattezza quello che cosa ci attende, che potremmo essere sorpresi da un nuovo altro, da un nuovo noi, da un nuovo insieme. E da un nuovo possibile. Per poterci sentire noi stessi cielo stellato.