Napoli e l’immaginario. Non è una storia nuova ma senza scomodare precedenti illustri fermiamoci al presente: al cinema la capitale partenopea è diventata, negli ultimi tempi, quasi un set «obbligato» tanto da parlare di «napoletanità».Trucchi mediatici, forse, e pure quel tanto di compiacimento davanti alle Gomorre, alle periferie di personaggi e condizioni estreme che danno l’impressione di un «déja vu» prima di cominciare. E di forzature – astuzie? – che lasciano indietro passaggi importanti, sguardi obliqui anche recenti assai potenti (Gaudino, Capuano, Martone per fare qualche nome).

 

 

Dunque proviamo a immaginare una storia ambientata nelle zone «difficili», a Ponticelli, anche se i palazzoni che scorgiamo nelle inquadrature potrebbero essere in una qualsiasi periferia di speculazioni, abbandoni, soprusi. Lì una donna, che a quel luogo non appartiene, tiene insieme un’associazione di volontariato per i bimbi del quartiere, ci vanno dopo la scuola, a giocare, a inventare mondi, a fare merenda, i compiti. È un altrove alla strada, alla violenza che si respira fuori di cui, in modo diverso, ciascuna famiglia ha esperienza.

 

 

Ecco che un giorno ci arriva una ragazza con due bimbi piccoli, si chiama Maria, la vergine non c’entra. È la moglie di un camorrista ricercatissimo – e temutissimo da tutti. Lei è sola, l’altra donna l’accoglie però Maria la tradisce perché nella casetta che le viene offerta nasconde il marito che verrà arrestato.
A quel punto tutti chiedono a Giovanna – questo il nome della responsabile dell’associazione interpretata da Raffaella Giordano – di cacciarla, lei però resiste mettendo a rischio l’esistenza stessa di quel posto pur di non cedere a quello che vive come un ricatto in un terreno che del ricatto ha fatto una regola.

 

 

Tutto questo in L’intrusa avviene senza quei codici della «napoletanità» (abusati), lingua a parte che però, forse perché non resa genere assume un diverso suono. Nel suo secondo film, da oggi in sala, Leonardo Di Costanzo conferma la cifra di un racconto del mondo già dichiarata nel lungometraggio d’esordio, L’intervallo in cui la semplicità, la scelta di traiettorie emozionali, le geometrie dello sguardo restituiscono la realtà senza utilizzare le astuzie dei compromessi.

 

 

Non c’è bisogno di macchiette (che non riescono nemmeno a diventare maschere), e i personaggi che abitano il suo film non li abbiamo mai visti. Tutto si gioca in quel giardino, e nei gesti quotidiani, senza oltrepassare il cancello per ammiccare alla cronaca, e soprattutto nell’incontro- scontro tra queste tre figure femminili, due adulte e una bambina, la piccola Rita, che nel cercare un proprio spazio interroga le altre, la madre, Maria, e la volontaria Giovanna, le provoca mentre le due si affrontano. madre e figlia con la loro presenza, di chi non chiede ma ha bisogno, scuotono le certezze dell’impegno che non può essere determinato in astratto, che deve riuscire a resistere al confronto anche se non è sempre vincente – non si sono gli «eroi» in questa storia. E quanto accade interroga anche noi spettatori, ci pone con discrezione questioni importanti sul nostro presente ma senza voler dare lezioni. Non è questo il senso del cinema?