Ho scelto di non guardare re in diretta il ritorno in Italia di Silvia Romano. L’aspettativa creata dalle tivù sul suo arrivo aveva un che di ansia guardonica che mi ha tenuto alla larga da schermi e commenti. Dopo, quelle immagini hanno invaso ogni spazio di web e telegiornali ed è stato impossibile sottrarvisi. Gioire per la liberazione di una persona sequestrata per 18 mesi non ha niente a che fare con la voglia di scandagliarne il viso, il corpo, i gesti, gli abiti. Men che meno ha a che fare con il diventare spettatori di un momento che dovrebbe essere solo suo, ovvero l’incontro con la madre, la sorella, il padre, insomma i suoi affetti. Invece…

INVECE l’hanno data in pasto a fotografi e telecamere, tutti lì a cercare di cogliere le rughe, le lacrime, le smorfie, le espressioni, i particolari del suo abbraccio con la madre, guarda caso proprio nel giorno in cui l’industria degli affetti celebrava l’invenzione della festa della mamma. Da lì è stata inevitabile la gara fra chi ha detto la sua su abito, velo, sorrisi, commozione.

Il seguito si è avuto il giorno dopo, al suo ritorno a Milano. Al di là del comprensibile desiderio del quartiere di accoglierla festeggiando, di nuovo la ressa di fotografi e telecamere le ha reso difficile persino entrare nel portone del palazzo dove abita, al punto che lei stessa ha detto: «Vi chiedo rispetto». Tutte queste immagini quali elementi hanno fornito per capire meglio la vicenda di Silvia Romano? Nulla. Hanno solo soddisfatto la piccola curiosità del momento buttando alle ortiche il rispetto per la persona.

Che bravi siamo stati, tutti lì a sfrucugliare, scavare, commentare. C’è stato persino chi, osservando come si accarezzava la pancia, ha ipotizzato che sia incinta. È stata la perfetta rappresentazione della parte più guardona di cui siamo capaci. Abbiamo assistito all’esibizione di una giovane donna che, dopo un’esperienza così traumatica, viene buttata in pasto ai media come un trofeo per soddisfare anche la passerella di chi ha lavorato per farla tornare a casa sana e salva. A loro va certo tutto il merito di aver costruito nel silenzio la sua liberazione, ma va anche il demerito di aver anteposto l’immagine del proprio successo alla necessità di proteggere l’ostaggio appena liberato da una curiosità morbosa.

Qui entrano in campo il senso e la necessità di un’immagine. Che cosa cerchiamo quando guardiamo una foto, un documentario o un filmato? Che cosa ci aspettiamo di trovare scandagliando il viso e i gesti di un ostaggio uscito dalla prigionia? Siamo così incapaci di immedesimarci nella prevedibile gioia, dolore, sollievo, smarrimento o trauma da aver bisogno di vedere tutto ciò documentato secondo per secondo? Oppure, con la scusa di seguire un fatto di cronaca, in realtà vogliamo soddisfare il nostro voyerismo?

QUANDO un anno fa furono liberati in Burkina Faso quattro ostaggi dalle forze armate speciali francesi, il presidente Macron accolse tre di loro. Anche lì c’erano fotografi e telecamere, ma molti meno che da noi per Silvia Romano. A guardare quel filmato colpisce come una pugnalata lo sguardo di uno dei liberati. È lo sguardo di qualcuno che vorrebbe scappare per non mostrare il suo tormento, un misto di sollievo e senso di colpa creato dalla consapevolezza che per liberare loro erano morti due soldati. In ogni caso, nessuno ha filmato il loro incontro con i familiari. C’è una soglia oltre la quale dovremmo fermarci sia come catturatori di immagini che come spettatori. Individuarla è facile. Basterebbe chiedersi «Ma io, al posto suo, come mi sentirei?».

mariangela.mianiti@gmail.com