Da Massimo D’Alema, guest star del convegno organizzato ieri a due passi da Palazzo Chigi da Sinistra italiana sui venti di guerra e la crisi dei migranti, tutti si aspettano sempre giudizi al vetriolo. E lui di certo non ha risparmiato il governo Renzi sui dossier più scottanti: la Libia e i rapporti con l’Egitto.

Ha ricordato che per avere un vero referente unitario in Libia è stata persa l’occasione di mettere in campo Romano Prodi come inviato Onu -«lui avrebbe potuto chiamare a raccolta veri interlocutori ma c’è stato un problema sul nome, forse Verdini sarebbe piaciuto di più», – e ora, mentre l’Italia continua a rivendicare un ruolo di leadership fa notare che «prima è stato detto che avevamo 5.000 soldati, poi che non li avevamo e poi che comunque non li mandiamo». Insomma «un’antologia confusa».

Non è una fila di battute o di twitter, però. Quello che D’Alema pronuncia davanti alla sala piena, accanto ai suoi ex compagni di partito Fassina a D’Attorre, ora dirigenti di SI, con anche Gianni Cuperlo ad ascoltarlo tra le ultime sedie, è un lungo e argomentato discorso, tutto concentrato sulla politica estera, campo d’indagine su cui il presidente di Italiani-europei si cimenta con passione e contatti continui: è appena tornato dall’Iran e cita l’ultima assemblea della fondazione Clinton «importante per capire cosa passa per la testa alla leadership Usa» dove, racconta, si è parlato quasi solo di Cina.

Le richieste degli alleati all’Europa – ha appena finito di spiegare l’analista Lucio Caracciolo, direttore di Limes – e anche all’Italia, nei teatri di guerra mediorientali dove gli americani «non hanno più credibilità», sono crescenti. Come in Iraq, dove 488 soldati italiani dovrebbero difendere i tecnici della ditta Trevi incaricata di salvare Baghdad da una possibile inondazione con la manutenzione straordinaria della diga di Mosul, «a ridosso del fronte con l’Isis». «Speriamo che questo impegno, che va molto al di là degli interessi italiani – sostiene Caracciolo – almeno si possa capitalizzare in termini politici».

Alberto Negri, giornalista del Sole24ore specializzato in questioni mediorientali, ha appena spiegato come «un enorme vuoto politico e di conoscenza» rischia di riprodurre errori fatti dall’Occidente dal 1979 in poi. «Anche i raid Usa in Libia che adesso tutti si aspettano aggraveranno la situazione, non la miglioreranno», sostiene.

Due, conclude D’Alema, sono le trappole in cui non si deve cadere: pensare che la democrazia sia esportabile, che basta fare le elezioni – «ma la democrazia non è il governo della maggioranza ma il rispetto per la minoranza» – o indulgere nel rimpianto delle dittature come garanzia di stabilità. «Qualcuno non fa che dire di essere il miglior amico di Al Sisi e bisognerebbe che lo spiegasse alla famiglia Reggeni», nota l’ex premier, ricordando come invece Al Sisi reprimendo i Fratelli musulmani «che avevano vinto le elezioni» ha alimentato la jihad nel Sinai.

Secondo Caracciolo la minaccia dell’Isis è stata molto, troppo enfatizzata e «si tratta più che altro di un fantasma, un mostro provvidenziale per coprire interessi contrapposti». Un’analisi, questa, non distante da quella di Negri che parla di «pompieri incendiari» e, come Caracciolo, chiama in causa la Francia e le altre potenze che non si liberano da logiche neocoloniali.

Gli errori dell’Occidente si sommano, moltiplicando gli effetti in modo sempre più devastante. Negri fa presente che il nuovo protagonismo della Russia a difesa di Assad in Siria si può leggere come il secondo tempo della dottrina della green belt o meglio della sconfitta dell’Armata rossa in Afghanistan.

Ma è l’ex titolare della Farnesina, l’unico politico tra gli oratori di punta del convegno, a fornire qualche proposta di soluzione. Primo suggerimento: l’Europa – e il governo italiano, sottinteso – non può usare l’intervento armato come panacea senza sapere cosa verrà dopo. È il caso della Libia e forse D’Alema dovrebbe ricordarlo anche al suo amico Giorgio Napolitano. Secondo, si deve de-internazionalizzare il conflitto in Siria. Terzo, per scardinare l’ideologia apocalittica che serve all’Isis per compattare il malcontento dei popoli islamici dietro le sue bandiere nere, l’Europa deve fare uno sforzo per tagliare il cordone ombelicale dei 40 milioni di musulmani con i loro paesi d’origine, dando loro piena cittadinanza.

«La via è stretta», ripete più volte l’ideatore della missione Unifil in Libano, e oggi, lui ne è sicuro, passa dall’Iran.