Ormai il dado sarebbe tratto e la prossima settimana alla riunione dell’Eurogruppo dovrebbe essere ufficializzata la notizia: Berlino è pronta a interrompere definitivamente la costruzione della pipeline russo-tedesca da 55 miliardi di metricubi di gas (in termini monetari un investimento da 11 miliardi di dollari).

L’ultima conferma viene dallo scoop dell’amburghese Die Zeit – conformato dal sempre ben informato moscovita Kommersant – secondo cui il vice cancelliere e ministro delle finanze Olaf Scholz, avrebbe informato il 7 agosto scorso il suo collega americano Steven Mnuchin della disponibilità tedesca a finanziare la costruzione di due terminali di ricezione per l’importazione di gas americano nei porti di Brunsbuttel e Wilhelmhaven in cambio del versamento da parte Usa di un miliardo di euro come “risarcimento” per l’interruzione del progetto con i russi di cui la Casa Bianca, assieme a Polonia, Ucraina e i baltici, è sempre stata fiera oppositrice.

Una pugnalata alle spalle per l’ex cancelliere Gerhard Schroeder (membro del consiglio di amministrazione Gazprom), visto che Scholz milita nel suo stesso partito, e il segnale che ad di là dei dubbi di Angela Merkel l’idea di cambiare partner energetico a Berlino sia bipartisan (anche i verdi militano per tale ipotesi).

Tuttavia ciò che desta maggiori punti di domanda è la data del contatto tra i due ministri. La proposta tedesca sarebbe arrivata sul tavolo di Trump due giorni prima delle elezioni in Bielorussia e ben 13 prima dell’avvelenamento di Alexey Navanly, il che lascia intendere che la decisione di lasciare Putin con il cerino in mano sarebbe precedente all’esplosione delle due crisi politiche a est.

Sorgerebbe anche il dubbio che le vicende economiche e quelle politiche non siano collegate così linearmente come sembrerebbe a prima vista, o lo siano lungo linee di faglia più complesse.

Che si stia andando nella direzione di una rottura verticale delle relazioni Russia-Europa è confermato dalle parole pronunciate dalla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, ieri al parlamento europeo: «Risponderò a coloro che sostengono relazioni più strette con la Russia: l’avvelenamento di Navalny non è il solo caso. Ne abbiamo già visti in Georgia, Ucraina, Siria e Salisbury. Abbiamo osservato interferenze nel voto in varie parti del mondo. Questo modello non cambia, nessun gasdotto lo cambierà».

In realtà a occidente – non solo oltreoceano – c’è l’idea che in questo momento si possa infliggere un colpo, se non da ko almeno da infermeria, a Putin. Concorre a rendere difficile la situazione per il governo russo anche l’annuncio di Erdogan del 21 agosto di aver individuato al largo della costa turca, una riserva di 320 miliardi di metri cubi di gas.

«L’obiettivo è permettere al popolo turco di utilizzare questo gas a partire dal 2023 e risolvere alla radice il problema dell’approvvigionamento energetico», è stata la dichiarazione del presidente turco che è suonata come un commiato dal Turkish Stream su cui Mosca aveva fatto tanto affidamento ed entrato in funzione solo all’inizio dell’anno.

Una svolta da mettere insieme a un’altra di non poco conto: la recente decisione di Belgrado di avvicinarsi sempre di più agli Usa. La Serbia avrebbe dovuto essere, entro un paio di anni, l’approdo successivo del gas russo su quella direttrice.

Anche per questo oggi Mosca sta facendo il possibile per tenere aperta la partita di North Stream. Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha invitato la Germania a «non politicizzare una decisione che deve restare commerciale», mentre Lavrov ha promesso che «in caso di abbandono le ripercussioni saranno immense».

E si è fatto muovere uno dei pochi alleati che alla Russia sono rimasti in questa vicenda: il premier austriaco Sebastan Kurz si è dichiarato contrario all’addio del progetto.