Un’immagine circolata dopo la sconfitta del movimento di Münster, nel 1535, raffigura «le gabbie appese sulla torre della chiesa di S. Lamberto, nelle quali i cadaveri dei capi anabattisti si putrefacevano sotto gli occhi di tutti»: l’atroce pena simboleggiava la sconfitta dei millenaristi che avevano osato sovvertire l’ordine secolare e religioso, il trionfo di un «ancien régime padrone del futuro». Lo ricorda Thomas Kaufmann, teologo e storico luterano tedesco, che dopo avere stilato anni fa una piccola biografia di Lutero si è dedicato – in I redenti e i dannati Una storia della Riforma (Einaudi, pp. 390, euro  32,00 con pregevoli illustrazioni) – a un affresco del primo secolo della Riforma. L’occasione è il quinto centenario delle tesi di Wittenberg, che ha dato vita a una proliferazione di biografie del riformatore sassone e di sintesi storiche di diseguale valore.

Il lavoro di Kaufmann è una storia «teologica» svolta attraverso l’analisi del contributo di predicatori e maestri che operarono per convertire città e territori nel cuore del Vecchio Continente, partendo da quel laboratorio religioso che divenne l’università di Wittenberg, fondata pochi anni prima che l’iniziatore della Riforma cominciasse a insegnarvi, facendone, con l’amico Melantone (l’eroe di Kaufmann, che sottolinea il ruolo e l’apertura di quel teologo umanista), un polo di attrazione internazionale.

Il testo fotografa il farsi della Riforma tramite i conflitti che ne videro la gestazione contro il papato, e traccia le divisioni del mondo protestante sin dalla prime polemiche di Lutero con Carlostadio, Zwingli e gli anabattisti. I primi due capitoli hanno al centro la Germania e la Svizzera e sottolineano il carattere pubblico di quella rivolta teologica, impensabile nell’universo medievale, che finì per coinvolgere quell’«uomo comune» a cui comunque non si riserva attenzione – tanto più che lentamente anche nella Riforma «la voce dei laici (…) non fu più percepibile».

L’autore non ama le Chiese nate dall’alto, per impulso regale, senza «autocomprensione» teologica: l’anglicana e più tardi la luterana svedese. E nonostante metta in luce i limiti di un orientamento ben consolidato nella storiografia, privilegia il Lutero giovane (che voleva «far crollare il cielo e incendiare il mondo») rispetto a quello degli ultimi vent’anni di vita, che costituì una Chiesa stabile e attaccò ogni ribaltamento dell’ordine sociale in nome del Vangelo.
Perciò il testo sconta uno squilibrio tra le parti, accentuato dal fatto che Calvino è ritratto troppo in breve e non si analizza l’Istituzione della religione cristiana, la cui fortuna fu più ampia rispetto agli scritti dei tedeschi. Del resto, anche la Riforma radicale è descritta con rapidità, notando il debito contratto da alcune «sette» con il primo Lutero.

Com’è scritto nella premessa, il luteranesimo fu un’internazionale non meno e prima del calvinismo, perché la Riforma, grazie alla stampa (per Lutero un dono del Cielo) fu un fenomeno che ebbe rapido impatto su scala europea. Kaufmann tenta perciò di fornire una storia della divisione del cristianesimo occidentale che sottragga Lutero, una volta per tutte, alla storia nazionale tedesca. Ma lo sforzo è riuscito fino a un certo punto: è vero che «il luteranesimo restò, a differenza di altre confessioni, un’unità percorsa da tensioni, policentrica e polimorfa»; ma – ed è lo stesso autore ad avvertirci – «rispetto agli “internazionalisti” seguaci di Calvino e ai globalisti cattolici, i luterani si concepivano (…) come patrocinanti della nazione tedesca».

Intenti apologetici
Sebbene sottolinei quanto fossero aspre le polemiche di Lutero («se davvero combatteva qualcosa o qualcuno, agiva animato dall’odio più accanito») e il carattere collerico del vecchio riformatore, di cui stigmatizza l’odio antiebraico dopo un primo scritto di apertura; e nonostante biasimi i signori e le città che, abbracciata la Riforma, secolarizzarono e privatizzarono con rapacità i beni della Chiesa, Kaufmann non si sottrae a una piegatura apologetica.
Un eccesso di ottimismo investe il contributo dell’intero protestantesimo ai processi di emancipazione della donna, e soprattutto non viene sciolto sino in fondo il nodo del rapporto tra Riforma e potere politico: come scrive Kaufmann, l’appello Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca è un testo centrale per comprendere Lutero, ed è uno dei suoi scritti che meno circolò in traduzione fuori dalla Germania: «una circostanza gravida di conseguenze». Ma proprio perché il libro ha l’intento di ricostruire il passato con un occhio al presente e alla tradizione culturale tedesca, resta l’impressione che la parte finale, dedicata alle interpretazioni della Riforma, glissi con abilità sull’uso di Lutero in epoca nazista, fermandosi alle soglie di una questione che meritava più che il solo richiamo alla (ultraminoritaria) Chiesa confessante, che tentò di separare la fede dall’obbedienza hitleriana. Lo scivolamento sul problema è tanto più evidente in quanto l’autore insiste sugli usi della Riforma durante il regime della Ddr, che lentamente si appropriò di Lutero dopo avere esaltato il rivoluzionario Müntzer già biografato da Engels.

Insomma, il rapporto tra potere civile e religione protestante è ineludibile, visti gli esiti novecenteschi della storia tedesca (ma il discorso vale anche per i cattolici). Certo, «lo statalizzarsi della religione durante la Riforma ha favorito la cristianizzazione della società». Ma il pluralismo, nell’Europa delle religioni armate, si ridusse in poche aree: la Polonia, la Moravia. Se è vero poi che con la Riforma si innescò un processo di «nazionalizzazione politica» (il fedele si fece suddito), è difficile sostenere che vi fosse un potenziale di libertà nella «dottrina dei due regni, che certo distingue tra la sfera religiosa e quella umana, si oppone alla commistione fra bene terreno e salvezza e cerca di evitare che lo stato assurga a entità metafisica».

200 scomuniche l’anno
Kaufmann si rammarica che «il potenziale di questa dottrina non sia stato sfruttato». Ma si trattava di un vero potenziale? E che dire degli effetti disciplinanti delle Chiese riformate? Dopo la vittoria dei seguaci di Calvino, a Ginevra un abitante su otto fu «convocato almeno una volta l’anno» per rispondere della propria condotta morale davanti alle autorità, e vi furono comminate circa duecento scomuniche l’anno. Sono numeri imponenti; eppure Kaufmann non esita a giustificare, invocando la presunta «mentalità dell’epoca», il rogo ginevrino dell’antitrinitario Miguel Servet, che scandalizzò quanti speravano di essersi liberati delle condanne a morte per eresia comminate dalle Inquisizioni cattoliche.

Il punto centrale della sintesi di Kaufmann deve tuttavia essere condiviso: per i contemporanei di Lutero «non era affatto ovvio che egli cercasse nella Bibbia tutte le risposte alle domande sulla vita e la salvezza»; la cristianità «non aveva mai riflettuto prima sui fondamenti della fede in così breve tempo e con una tale intensità». Senza gli anni impetuosi della Riforma il mondo non sarebbe stato lo stesso, e oltre quattro secoli dopo, lontano dall’Europa, un leader afroamericano non avrebbe scelto di aggiungere il nome Luther al suo proprio di Martin King.