Che cosa hanno in comune un’orchestra e un coro operistici e una fabbrica metalmeccanica? Sono culture, storie, etiche del lavoro molto diverse; ma sono entrambi oggetto di un licenziamento di massa in forme fino a poco tempo fa inimmaginabili. Con tutte le differenze, sono diventati il banco di prova di una politica che vede nel diritto di licenziare i lavoratori a piacimento l’asse di una brutale restaurazione classista che trasforma la «repubblica democratica fondata sul lavoro» in un’entità fondata sulla negazione del lavoro e dei suoi diritti.

Dieci anni fa la ThyssenKrupp, multinazionale proprietaria delle storiche acciaierie di Terni, annunciò la chiusura del magnetico, il reparto fiore all’occhiello della fabbrica e della sua cultura. Formalmente, si trattava solo di un reparto – che comunque era già una ferita grave, con 900 posti di lavori persi.

Ma gli operai lo percepirono come l’inizio di uno smantellamente più radicale, della fine dopo 120 anni del polo siderurgico ternano. E avevano ragione.

Da tempo, le forze politiche, sinistra compresa, parlavano della necessità di «emancipare» la città dall’acciaieria (e dalla classe operaia). Ma l’aggressione della multinazionale toccò un nervo – echi della rivolta contro i licenziamenti di massa nel 1952-53, memorie familiari di generazioni che all’acciaieria avevano buttato sangue, sudore, e sapere operaio. Gli operai della AST di allora erano giovani, ma avevano ereditato quella memoria e quella coscienza. Sapevano che la fabbrica non era della ThyssenKrupp, ma loro e della loro città.

L’unità tra operai e città riuscì a sventare la chiusura del magnetico. Ma un anno dopo la multinazionale tornò alla carica. Gli operai erano ancora compatti ma la città intorno a loro cominciava a essere stanca, e la vicenda si chiuse con un compromesso che conteneva i semi del dramma di oggi: una multinazionale che di questa fabbrica non sa che farsene e presenta proposte provocatorie, un governo subalterno che balbetta e non fa niente, e una classe operaia che diventa ancora una volta la portatrice dell’interesse generale.

Certo, sono in gioco in primo luogo centinaia di posti di lavoro, di persone e di famiglie, una fabbrica, una città, una regione. Ma è anche in gioco la visione di un’Italia che non sembra più avere la capacità, il desiderio e il diritto di avere una politica industriale. E ancora: una fabbrica come questa è anche un bene culturale, una memoria, un’etica, un sapere, un senso di orgoglio e dignità di cui il nostro paese avrebbe disperato bisogno e che invece (come la maggior parte dei beni culturali) vengono rottamati e buttati al macero in nome di un «nuovo» che è vecchio di secoli.

Una giovane filmmaker ternana, Greca Campus – figlia e nipote di operai, naturalmente – mi raccontava di un progetto a cui sta lavorando, un’esplorazione sulla molteplice identità della nuova classe operaia ternana. Tre vite di lavoratori assai diversi: uno impegnato sindacalmente, un altro che fa l’operaio per mantenersi ma si considera musicista, e un immigrato albanese. Oggi sono tutti e tre a rischio: l’aggressione della multinazionale ricompatta e riunifica (sia la Cgil sia Cisl e la Uil respingono il cosiddetto piano i industriale dei padroni). Se davvero a Terni si arriverà, come dice Landini, a forme di lotta radicale come l’occupazione della fabbrica, dovremo sapere he la loro unità ci rappresenta tutti.