Le oltre diecimila persone che a Roma vivono in occupazione sono conosciute come «occupanti di case». Varcando la soglia di uno di quegli spazi non è sempre facile riconoscerlo come casa.
Ad alcuni appartamenti si sono nel tempo aggiunti scuole, uffici, alberghi, padiglioni, strutture di servizio. Edifici diversi tenuti tra loro assieme dall’ essere, da tempo, abbandonati. Fossili edilizi che, in molti casi, hanno interpretato una prima vita come immobile istituzionale. Poi, secondo il copione con cui l’ingegneria finanziaria cannibalizza quella edilizia, sono stati «cartolarizzati». Il meccanismo che trasferisce, per «far cassa», interi pezzi del patrimonio immobiliare pubblico in un bilancio patrimoniale privato. Nella città finanziarizzata edifici messi in vendita ed occupati non sono un paradosso. Chi ora li possiede non punta ai canoni di locazione, ma ai crediti che potrà ottenere offrendoli come garanzia. Edifici che pur non destinati a residenza sono lo stesso abitati. Ma l’occupazione è una forma possibile dell’abitare?

Ventitré tra uomini e donne che così vivono, sempre a Roma, stanno facendo uno sciopero della fame. Rispondono, con questo gesto, che in occupazione non si può continuare a vivere né si può morire. Non vogliono che la loro vita continui ad essere schiacciata sempre più giù nella discarica sociale dell’abitare. Dove buttare le persone a cui non si vuole riconoscere nessun diritto perché non si ha più nulla da prendergli. A molti tra gli occupanti insieme al lavoro è stata tolta la casa. Hanno occupato precipitando così nella coabitazione di massa. In occupazione, le forme del reciproco aiuto solidale e mutualistico, sono essenziali nell’attrezzare i «servizi», nell’organizzazione degli spazi collettivi. Nel definire quelli individuali ognuno però è solo. Nelle occupazioni non è lo spazio alle volte a mancare (basta pensare alla larghezza spropositata di un corridoio di un ufficio o all’ampiezza di un’aula scolastica). Manca la possibilità di garantire per ognuno la possibilità di avere gli elementi che costituiscono l’abitare degno. Difficile riuscire ad assicurare a tutti, date quelle tipologie, l’illuminazione diretta da una finestra. Impossibile garantire la ventilazione naturale degli ambienti. Come fare con il caldo e il freddo? Non sempre è possibile eliminare le barriere architettoniche. A volte, negli edifici alti, gli ascensori sono fermi e tante sono le carrozzine e passeggini. Come avere impianti sicuri? O, anche, la possibilità di uno spazio fuori di quella stanza miracolosamente ritagliata, dove andare a fumarsi una sigaretta, guardare fuori il cielo e spiegarlo ai tuoi figli? Le occupazioni non devono nascondere le case in quei corpaccioni murari, ma farle uscire fuori come individui edilizi. Possono mostrarsi alla città come soluzione di un’emergenza, come singole parti di un quartiere diffuso nel tessuto urbano.

La recente delibera della regione Lazio parla, nel licenziare finalmente un programma per l’emergenza abitativa, di recuperare questi edifici anche con la pratica dell’autocostruzione e mette a disposizione una prima cifra significativa. Un progetto che potrà essere accolto come una opportunità per l’abitare di tutti solo con il superamento del doppio ostacolo che oggi lo accompagna. Il primo rappresentato dal dimenticabile commissario Tronca che ha voluto attaccare, imbevendo di veleno l’ultimo colpo di coda del suo comando dispotico, questo piano. Vuole ridurre lo stock abitativo destinato a chi occupa e vuole iniziare non ricercando case, ma con gli sgomberi. Il secondo riuscendo a non assecondare quella certa retorica della bellezza delle occupazioni, proprie ad alcune letture accademiche, che tendono ad isolare l’edificio occupato dallo spazio urbano che lo ha provocato e che lo ospita.

Non è questo un discorso urbanistico, ma un progetto preciso: la traduzione in «case belle per i più» dei percorsi del protagonismo sociale che offre alla comunità un bene trascurato riconsegnandolo come individuo edilizio capace di rappresentare se stesso non solo come tetto, ma come realizzazione compiuta del diritto all’abitare.