Un fatto e un’immagine. Cominciamo dal primo: condannate dal vescovo di Parigi le sue posizioni filosofiche (1270; 1277), Sigieri di Brabante avrà vita difficile. Pur lasciando l’insegnamento, e Parigi, una coltellata lo finisce a Orvieto. La colpa? Aver rilanciato, nel centro dell’Europa cristiana, l’aristotelismo dell’arabo Averroè – di Cordova, europeo e straniero nello stesso tempo. L’immagine. Firenze, Basilica di Santa Maria Novella: nell’affresco di Andrea di Bonaiuto, Tommaso con i piedi schiaccia gli eretici sconfitti; tra questi, Averroè. La cristianità lo vuole sconfitto, pensando al De unitate intellectus – dal domenicano redatto nel 1270. Eppure è un rimosso, familiare quanto estraneo, che non smette di riprendersi la scena.

Averroè l’inquietante: così il titolo di un saggio, breve ma folgorante, di Jean-Baptiste Brenet, appena edito in Italia (Carocci, PP. 284, euro 12). Al pari di un reagente chimico, il noto scritto di Freud del 1919, Il perturbante, sostiene Brenet nella rinnovata conquista dell’aristotelismo più indigesto della storia del pensiero europeo: quello del Commentator.

IN PRIMO LUOGO le tesi blasfeme: l’intelletto è separato, uno ed eterno. Tali le affermazioni di Averroè, commentando il De anima di Aristotele. Essendo separato dal corpo, l’intelletto è comune alla specie, e dunque – senza confonderci con l’immortalità dell’anima dei singoli – eterno. Meglio ancora: separato vuol dire che l’intelletto, pure parte dell’anima, è estrinseco, viene da fuori. Ma non accade lo stesso con la lingua? Sostanza collettiva già da sempre fatta, e da fare, ci precede e articola il nostro pensiero.

Averroè è il più radicale tra gli aristotelici: non solo l’intelletto agente, quello che pensa i concetti universali, ma anche quello potenziale o «materiale» è separato. In che modo questo intelletto, che non ha forma ma tutte le può accogliere, si connette col corpo singolo? Attraverso i phantasmata, le immagini. Usando la metafora visiva, cara ad Averroè: l’intelletto agente, quello che estrae i concetti, è l’equivalente della luce; concetti sono i colori degli oggetti che i corpi sentono e immaginano; il luogo o sostrato dove l’estrazione dei colori-concetti è possibile, è il «diafano», ciò che lascia trasparire e che mostra.

Per leggere Averroè con Freud, come fa in modo perspicuo Brenet, basta allora tornare alle virulente critiche che Tommaso rivolse al Commentator. In primo luogo i soggetti del pensiero in atto sono due: «soggetto-sostrato» è l’intelletto materiale che riceve il concetto; «soggetto-motore» è invece il fantasma che al pensiero fornisce il contenuto, e «lo lega al mondo». Se il pensiero ha due soggetti, è l’unità della persona pensante a essere messa in crisi: un sosia perturbante. In secondo luogo: l’infante è da subito in contatto con l’intelletto? No, risponde Averroè: all’intelletto si è aperti, attraverso le immagini ci si congiunge; dall’intelletto, che è comune, si è sempre «posseduti».

Perturbante è il corpo che ci appare posseduto dai demoni, ricorda Freud. Poi c’è la metafora dello specchio, per Tommaso decisiva: se la connessione tra le immagini e l’intelletto potenziale è analoga a quella dell’uomo con uno specchio, evidentemente non è questo o quell’essere umano a pensare, ma è piuttosto il pensiero che ci pensa. E ancora: se il pensiero è comune, salta la distinzione tra l’Io e gli altri, riemerge «inquietante» quell’essere indeterminato e sorgivo che precede le distinzioni tra dentro e fuori: «la fantasia della vita intrauterina», con le parole di Freud.

INFINE, se il pensiero è eterno, non può far altro che ripetere. L’ancoramento fantasmatico, per quanto singolarizzi, rischia di essere ornamento irrilevante di un’attività impersonale. Non è l’eterno ritorno del pensiero equivalente alla coazione a ripetere che scatena l’effetto perturbante? Qui la soluzione di Brenet, alle prese con thanatos, si fa originale, diremmo leopardiana: è la materia «traboccante» ed eterna che, così come produce, distrugge. Il concetto che si ripete è il segno della materia sorgiva o desiderio che ritorna, al di là dei perimetri individuali. Thanatos degli enti, eros della vita impersonale che, seppur per poco, gli enti fa e attraversa.