Sissako è nato in Mauritania a Kiffa, nel 1961), è cresciuto in Mali e ha studiato al Vgik di Mosca dove è arrivato quando la Russia era ancora Unione sovietica a ventuno anni. Gli unici film che aveva visto fino a quel momento, o di cui almeno conservava un ricordo erano la serie di Trinità con Bud Spencer e Terence Hill, Il monello di Chaplin e I Sette gladiatori. Non male come inizio. Poi da Mosca Sissako arriva a Parigi, dove vive tuttora, e inizia a girare film, rivelando dall’esordio, coi cortometraggi fino al primo lungometraggio, nel ’97, La vie sur Terre, un talento speciale.
In Italia i suoi film hanno circolato poco anche se Sissako è presenza abituale nei grandi festival internazionali come quello di Cannes, dove lo scorso anno era in concorso anche Timbuktu – che dovrebbe uscire da noi in febbraio.

 
La storia, come suggerisce il titolo, si ambienta nell’antica capitale del Mali occupata nel 2012 dagli jihadisti di al-Qaeda. Lì, tra le dune, lontano dal villaggio, vivono in pace un pastore Tuareg, sua moglie e la loro amatissima figlia,Toya, allevano vacche e GPS è quella che amano di più. Gli jihadisti però li tormentano, in particolare uno ossessionato dalla donna… Ed è in questa fragile geometria, che appare destinata sin dalle prime immagini alla devastazione – proprio come i palazzi ocra della città che gli jihadisti hanno distrutto con furia – prende corpo il racconto di Sissasko, che dell’integralismo mette a fuoco paradossi e violenze cancellandone i luoghi comune, delle iconografie e soprattutto delle contrapposizioni. Che spingono uno jihadista, prima rapper, a frustare i ragazzi e le ragazze che ascoltano musica insieme. E a imporre oltre al velo i guanti alle donne di un villaggio che vive di pesca, impedendo loro così di lavorare. Ecco, tagliamele le mani allora grida a uno di loro la donna al mercato.

 
Timbuktu è stato girato a Oualat, in Mauritania, la città di suo nonno, con attori per lo più non professionisti, la ragazzina protagonista, Layla Walet Mohamed è stata scoperta in campo di rifugiati maliani in Mauritania, a M’bera, dove vivono settantamila persone, Sissako l’ha voluta subito nonostante i suoi dodici anni, e all’origine il personaggio doveva averne tre. Nella parte del pastore Kidane c’è Ibrahim Ahmed, musicista tuareg che vive a Madrid, e in quello della moglie Satima Toulou Kiki, una cantante del Niger emigrata a Montreal. A spingere il regista a girare questo film è stata la rabbia per un episodio avvenuto in Mali, nel 2012, a Aguelhok: un uomo e una donna erano stati lapidati perché scoperti insieme senza essere sposati.La collera ha lasciato posto al pensiero e al desiderio di non cadere nei soliti e facili manicheismi.

 
Dei suoi film Timbuktu è quello in cui Sissako utilizza una struttura più apertamente narrativa, in perfetta sintonia con il suo desiderio didattico, di insegnamento e di pensiero. Non possiamo vederlo oggi senza pensare ai massacri di Boko Haran in Nigeria, ma anche a quanto è accaduto in Francia, o ieri in Belgio, al sentimento diffuso di paura e di violenza di questi ultimi giorni. Una radiografia dell’integralismo quella del regista senza ipocrisie, surreale paradosso come la immaginaria che attraversa il cielo, perché anche il calcio è divenuto un fantasma, i palloni sono proibiti e i ragazzini possono solo immaginarli.