A dispetto di quanto si possa pensare di fronte a uno dei famosi autoritratti in cui il volto in ombra si dissolve nel pulviscolo atmosferico e la figura è inghiottita da un presagio di sventura mai registrato prima, Rembrandt Harmenszoon van Rijn non fu un enfant prodige. Il mestiere lo conquistò strada facendo, tra cadute, fallimenti e improvvise virate, muovendosi egli poco dalle sue due città d’elezione – Leida e Amsterdam – e continuando per tutta l’esistenza a dipingere, oltre che su commissione, a proprio piacimento. Per esempio, scendendo in strada per registrare i movimenti dei mendicanti della sua epoca, spesso anziani, come i profeti e i santi che ritroveremo nelle sue tele a soggetto storico o biblico (un tocco originale nell’Olanda protestante). Stranamente, nonostante i molti anni di permanenza, il pittore non dedicò nessun paesaggio a Leida. Non la mitizzò, neanche per cedimento nostalgico.

Rembrandt aveva una ossessione: cogliere i moti «leonardeschi» dell’animo umano, e a questo suo assunto aderì con coerenza. Lo rispettò sia nelle incisioni, di cui fu sublime sperimentatore e alle quali era solito donare nuova vita ritoccandole a distanza di tempo, sia attraverso la galleria fisica dei suoi famigliari e con il vertiginoso susseguirsi di tronies e autoritratti. Disegnava con inchiostri e gessi, copiava modelli, studiava la natura. Praticava tutti i generi, ognuno era un banco di prova per la nascita e la morte di quel teatro vivente racchiuso in coni di luce artificialmente ricreata.

Nella sua seconda vita – il capitolo definitivo di Amsterdam che lo consacrò alla celebrità – collezionava calchi antichi per ispirarsi nelle pose dei suoi personaggi: accumulava armature, strumenti, stoffe ricamate e, naturalmente, stampe – da incisori come Antonio Tempesta fino ai fiamminghi Lucas Van Leyden e van Dyck. Non era un’attività secondaria quel suo raccogliere testimonianze le più svariate: sedimentava un palinsesto di conoscenze, nutrimento per un eclettismo vorace, la cura per il dettaglio e l’insistita osservazione dal vero. Quegli acquisti passionali avranno poi un’altra sorte, meno artistica e più venale: riusciranno a dilazionare la sua imminente bancarotta con un’asta di tutti i beni. Ma ormai la parabola del pittore su questa terra si era conclusa: sopravvissuto a una serie tremenda di lutti famigliari (compreso l’adorato figlio Tito, che morì prima del padre), a rovesci di fortuna e incupimenti, Rembrandt si spense il 4 ottobre del 1669, a 63 anni.

[object Object],, 1626

Trecentocinquanta anni dopo, a Leida, luogo natale dell’artista, nel restaurato e ampliato Museum de Lakenhal, la mostra Young Rembrandt – Rising Star (fino al 9 febbraio) può essere considerata come l’ultima porta d’accesso ai misteri dell’universo rembrandtiano e insieme la prima finestra «aperta» sulla graduale maturazione di un talento d’eccezione. L’esposizione chiude l’anno dedicato al pittore del Secolo d’oro olandese, riconducendo sulle strade già percorse molte opere che videro la luce proprio lì, nella seconda città dei Paesi Bassi, divenuta in un rapido volgere d’anni la competitor della «regina» Amsterdam.
Immaginata grazie a una collaborazione fra il Museum de Lakenhal e l’Ashmolean Museum di Oxford – il suo ex direttore, Christopher Brown, ne è il curatore insieme a Christiaan Vogelaar e An Van Camp –, la rassegna imbastisce un percorso ragionato con quaranta dipinti, settanta incisioni e una decina di disegni. Fra i prestiti speciali arriva dal Metropolitan di New York L’uomo in costume orientale del 1632, opera che segna il distacco dalla maniera precoce (padronanza assoluta della brillantezza di pennellate).

In un serrato confronto con l’alunno, l’itinerario prevede anche la presenza dei suoi due unici maestri. Il «locale» Jacob van Swanenburg era un olandese di ritorno che aveva passato diciotto anni in Italia, a Napoli. Esperto di quadri a soggetto storico dalle composizioni affollate, aveva una predilezione per il chiaroscuro come tecnica di modellazione. Il più internazionale Pieter Lastman (anche lui «reduce» italiano) accolse invece il giovanissimo artista ad Amsterdam per un apprendistato di sei mesi: uno «svezzamento» dello sguardo a tutto campo prima del rientro a Leida. A differenza dell’altro, Lastman riteneva che la storia potesse ammantarsi di drammaticità e furore espressivo. Ma Rembrandt preferì tornare sui propri passi, in cerca di fortuna nella sua città. Quando si riaffaccerà ad Amsterdam sarà in grado di investire mille fiorini sulla sua attività, soddisfacendo commissioni di famiglie potenti e frequentando il bel mondo: nel 1632, l’incontro con Saskia, cugina di un ricco mercante d’arte e presto sua moglie, aveva impresso una svolta finanziaria alla sua produzione.

Le ultime sale del Lakenhal sono occupate dagli allievi dell’atelier di Leida, quando Rembrandt a 22 anni si era prontamente trasformato in imprenditore di se stesso. Sono accostati uno all’altro per tessere un dialogo, a volte per consonanza, sulla base di un medesimo soggetto biblico o mitologico: c’è Gerrit Dou, il più dotato nel restituire lucentezza e morbidezza di broccati e sete, ci sono Isaac de Jouderville e Jacques Des Rousseaux, mentre un posto a parte è affidato a Jan Lievens. Figlio di una ricamatrice, amico fin dall’infanzia di Rembrandt, sarà probabilmente il suo «socio» in studio, tanto che molte opere del periodo giovanile sono di difficile attribuzione, come accadde a Picasso e Braque esordienti cubisti.

L’ouverture della mostra è consegnata a uno dei primi quadri conosciuti di Rembrandt, realizzato a 18 anni, nel 1624: è Il venditore ambulante di occhiali, dipinto su un supporto riciclato, a testimonianza della poca disponibilità economica degli esordi. Faceva parte di una serie di pitture metaforiche che illustravano i cinque sensi, di cui ne restano solo quattro. Se il pannello sul gusto rimane disperso, l’olfatto, invece, è stato al centro di un ritrovamento spettacolare: finito in asta nel New Jersey due anni fa per 800 dollari, poi diventato pezzo milionario, Il paziente incosciente è stato riconosciuto autografo e ri-assegnato a Rembrandt.

 

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IL LUOGO NATALE

Leida somiglia ancora molto al luogo in cui visse Rembrandt. Al tempo dei suoi nonni e genitori, la città era impietrita nei secoli, cinta da inaccessibili mura. Ma proprio negli ultimi due decenni del Cinquecento, e poco prima che Rembrandt vedesse la luce il 15 luglio del 1606, Leida ebbe il suo risveglio: l’industria tessile e il progressivo ripopolamento dovuto a massicci fenomeni di immigrazione ne mutarono il volto. Nel volgere di pochi anni, la rete urbana si sviluppò a ritmo frenetico verso nord e gli abitanti triplicarono il loro numero. La città cominciò a tallonare Amsterdam. Liberatasi dalla dominazione spagnola, accolse la prima università dei Paesi Bassi (8 febbraio 1575) e invitò scienziati per «gestire» le lezioni all’interno del famoso Teatro Anatomico. Si pensò poi di creare un polo d’attrazione con un Hortus Botanicus (uno dei più antichi d’Europa) e per questa impresa fu reclutato Carolus Clusius. Il botanico asservì al suo intento anche la Compagnia olandese delle Indie orientali, incaricandola di raccogliere specie di piante fresche e essiccate: mise su un piccolo giardino (35-40 metri) che però custodiva circa 1000 esemplari – oggi è stato ricostruito nella sede originaria.
Rembrandt bambino gironzolava per le strade del suo distretto, il Weddesteeg (la casa natale non esiste più, fu demolita per far posto a una tipografia e c’è solo una targa a ricordarla) assistendo a grandi cambiamenti architettonici. Luogo centrale per tutti era la cattedrale di Pieterskerk, dove i genitori dell’artista si sposarono, trovarono sepoltura e dove i pellegrini sciamavano prima di imbarcarsi per l’America. La nuova città, intanto, si espandeva sul lato settentrionale. Trascinati dal «boom» economico, anche i mulini di famiglia prosperarono – producevano malto per i birrifici -, concedendo ai Van Rijn un inusuale benessere, dopo gli anni di guerra e miseria. Rembrandt, sistemato un fratello come mugnaio e come ciabattino un altro, fu scelto per un’istruzione alta e iscritto alla Scuola Latina. La Scuola affacciava sulla piazza delle esecuzioni dei criminali, cui tutti potevano presenziare. Certo Rembrandt non dimenticò mai quel che vide dalla finestra della sua aula. La lezione di anatomia del dottor Tulp (1632) lo affranca definitivamente da Leida, ma rimanda a quel retroterra adolescenziale. E il dottor Tulp, in fondo, aveva studiato medicina proprio a Leida.