Venire al mondo è sempre un grave male. Anche se agli esseri umani capitano cose buone che rendono la loro vita migliore di quanto sarebbe stata altrimenti, non se ne sarebbe sentita la mancanza se non si fosse arrivati al mondo. Queste sono le tesi di fondo di un libro scritto nel 2006 da David Benatar, ora tradotto per Carbonio con un titolo che suona come una sentenza: Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (pp. 247, euro 16.50, traduzione di Alberto Cristofori). Direttore del dipartimento di filosofia alla università di Città del Capo, le sue posizioni influenti sull’antinatalismo sono una diatriba accademica consistente; sarebbe sufficiente leggere la breve introduzione al volume e l’elenco dei ringraziamenti in cui a spiccare non sono relazioni se non appunto con altrettanti dipartimenti, riviste prestigiose e istituzioni di eccellenza.

UNA SCELTA che dà il segno del lavoro che l’intellettuale sudafricano ha valutato di intraprendere per trattare un argomento tanto inflazionato quanto capzioso. Tra i più noti rappresentanti del nichilismo contemporaneo, la battaglia del professor Benatar è «questione morale» per addetti ai lavori per cui, di questa nascita che egli non vorrebbe infliggere ad altri per evitare eventuali sofferenze, si discetta non nella complessità e inestricabilità esperienziale con il dato umano bensì come eventualità di carattere puramente teorico e altrettanto risibile, di poco conto se consideriamo (parossisticamente, sia chiaro) che l’autore non ha mai deciso di togliersela, questa vita, ma anzi la trascorre per prescrivere ad altri – e soprattutto altre – cosa sarebbe preferibile fare della propria: non riprodursi, per sintetizzare grossolanamente quel che è un altro tema all’apparenza provocatorio quanto purtroppo noioso (soprattutto nel suo aspetto rivendicativo che arriva quasi al grottesco, esattamente come il suo contrario, ovvero quello per cui ci si debba riprodurre per forza).
Avrebbe potuto in effetti scegliere altrimenti per ciò di cui può disporre, di cui è padrone, la propria esist enza, invece non lo ha fatto poiché è appunto filosoficamente che ha inteso spendersi. Non certo da un campo di concentramento libico o da una capanna alle periferie di Caracas bensì da una collocazione, anzitutto ontologica, lievemente più privilegiata che gli consente di ordinare un tempo qualitativamente più favorevole, oltre che dilatato.

L’ARCHITETTURA ESPOSITIVA è tuttavia solida, con incedere affilato e impeccabile da un punto di vista logico; questo, ne è consapevole, lo rende quasi inattaccabile a proposito della «grave sciagura» di nascere. E, ci tiene ad aggiungere, chi pensa il contrario lo fa per un «biologico» ottimismo. Egli attende anzi che lo si confuti, poiché è la disputa che va cercando. Per ribattere a sua volta e via discorrendo. Diremmo all’infinito. Del resto è da qualche secolo che ci si va lamentando del dolore di stare al mondo, pensiamo alla rabbia apodittica del povero Sileno. O anche allo sconcerto di Schopenhauer; sarebbe appena il caso di consultare l’Ecclesiaste o anche il libro di Giobbe per essere certi che l’indicibile stordimento a causa del male che si incontra si tramuta in uno «scandalo» spesso inaccettabile.

TALE SCANDALO però non è il paradosso della ragione dinanzi alla fede per mondare l’angoscia ma quello del dolore, di un luogo indagato meglio dalla letteratura e dalla poesia che dalla filosofia, quest’ultima pur sempre una «balia asciutta» – come vuole la rappresentazione kierkegaardiana e di larga parte del pensiero filosofico occidentale. Che in quell’«asciuttezza» confessa l’incapacità di riconoscere un pensiero realmente incarnato oltre che generativo (quest’ultimo confuso con il dato meramente meccanico della riproduzione). Sta di fatto che, di quella scena che è l’origine, con buona pace di Hannah Arendt, una ragguardevole tradizione filosofica ne ha piuttosto un terrore sconfinato, tanto che – una volta arrivati a una parabola terrena – se ne dovrà subito accettare contritamente la sua fine. Da qualsiasi punto di vista si tratti la faccenda, risulta insomma – per dirla con Cioran – un inconveniente senza rimedio. Ovviamente di piacere, godimento, desiderio o addirittura dell’imprevisto trasformativo di zambraniana memoria teso a «disfare» la nascita manco a parlarne. Figuriamoci della felicità, seppur transitoria e rischiosa, di vivere. O di lottare per continuare a esistere.

MA ANDIAMO AVANTI, perché Benatar non indaga il terreno delle conseguenze dell’essere nel mondo, ripete invece il mantra della «sfortuna» di essere giunti qui. E suggerisce alcuni modi «in potenza» per evitarne il sicuro sfacelo. Intanto il più banale: non procreare, non cedere cioè alla sciocchezza natalista secondo cui i figli si fanno eccome e invece il non farli è un pregiudizio di «immaturità». Secondo l’autore, chi non si riproduce è in generale mosso da intenti altruistici e non si fa ingannare dalle derive nataliste, descritte nel volume in maniera convincente.
A parte la Cina, dai regimi totalitari alle più evolute democrazie si esorta la popolazione a fare figli, dando allo status genitoriale un valore aggiunto difficile da contrattaccare. In tal senso, mostra la fallacia del cosiddetto «diritto» alla procreazione e opera un distinguo tra chi si preoccupa di non portare nuove creature in questo mondo ben triste e invece chi ritiene, come lui, che anche se si stesse in un posto con meno sofferenze non si dovrebbe comunque nascere, «non vale la pena».

È QUI CHE IL RAGIONAMENTO di Benatar è, oltre che difficilmente digeribile, anche debole perché unicamente analitico e non riferibile a soggetti complessi dotati di senso – figuriamoci di libertà – e si schiaccia in una serie concatenata di sofisticati sillogismi: «sia il bene che il male capitano solo a chi esiste. Tuttavia c’è un’asimmetria decisiva tra il bene e il male. L’assenza di male per esempio di dolore, è un bene anche se a godere di quel bene non c’è nessuno, mentre l’assenza di bene, per esempio di piacere, è un male solo se c’è qualcuno privato di quel bene. La conseguenza di ciò è che evitare il male non venendo al mondo è un vero vantaggio rispetto al venire al mondo, mentre la perdita di certi beni provocata dal non essere al mondo non è un vero danno per chi non è mai venuto al mondo».
Il cortocircuito tuttavia arriva in seguito, cioè quando il filosofo accampa il concetto di «dovere morale» a non procreare non rendendosi conto che se non c’è un diritto (né un dovere) al riprodursi non può esserci nemmeno il suo contrario, se non si vuole cadere nella stessa logica distorta e coercitiva. Entrambe le tesi, natalismo e antinatalismo, si annullano infatti nella equivalenza sfrenata del proprio impianto impositivo.

DA QUI IN POI, Benatar procede con un elenco di declinazioni, quindi l’aborto finché si è in tempo, la disabilità, l’estinzione e altre cose di pari rilievo. Per capire il quadro, è interessante segnalare che, oltre alla avvedutezza di non nascere, Benatar ha pubblicato nel 2012 un altro volume, ancora non tradotto in Italia ma che, guarda caso, ha già fatto molto discutere, dal titolo Il secondo sessismo. Discriminazione contro gli uomini e i ragazzi.
Viene da sorridere per quanto ci si possa compiacere del proprio anticonformismo andando a prendere parola su temi così spinosi quando non del tutto reazionari. Ma David Benatar è forse conscio di essere un cattivo ragazzo, un disturbatore di compostezze accademiche. Il punto è che, in questo finto esercizio al dissenso socio-politico e morale, si sortisce lo stesso effetto: pretendere un protagonismo che, seppur legittimo, va molto di moda. Peccato che, in un mainstream severamente narcisista che ci abitua a ogni genere di aridità verso i viventi, anche il tempo dello sbigottimento non duri più di qualche secondo. Quello della noia ancora meno.