La pioggia, a tratti, e anche con violenza, batte le tendopoli, dalle quali, almeno nel territorio di Accumoli, già ci si comincia a defilare. Qui si contano circa 450 sfollati. Ed è nel pomeriggio di ieri che le prime famiglie, raccattando quel che montagne di macerie hanno finora restituito, sono partite per le coste dell’Adriatico. Per San Benedetto del Tronto (Ap), «dove – ricorda il sindaco del comune rietino, Stefano Petrucci – è stata siglata la convenzione tra una decina di alberghi e protezione civile e Regioni Marche e Lazio. È una sistemazione provvisoria, s’intende, che già in tanti, in 250, comunque hanno scelto. Staranno tutti insieme, per non disgregare ulteriormente la comunità, e i nostri studenti saranno raggruppati nelle stesse classi. Altri – aggiunge il primo cittadino – propendono per l’autonoma sistemazione, sperando di trovare abitazioni in cui potersi trasferire, se hanno resistito al sisma. Solo una piccola percentuale rimarrà da queste parti. Per lo più quelli che possiedono aziende agricole, con animali da accudire. L’obiettivo, comunque, nel giro di pochi giorni, magari già entro la fine di questa settimana, è di svuotare e, in seguito, smantellare i campi, dove non è possibile continuare a stare. Occorre sbrigarsi». Negli ultimi giorni le condizioni meteorologiche sono scoraggianti. Gli acquazzoni scrosciano sui paesi sbriciolati. E sulle tendopoli, dove ci si arrangia, si resiste, tra pozzanghere, malumori e passerelle di legno allungate per non impantanarsi.

In quella della frazione di Grisciano, tra le più grandi, gestita dalla Regione Abruzzo e da volontari di decine di associazioni che si alternano nel lavoro, i primi sfollati sono già andati via. Verso il mare. Traslocati, con gli autobus. Difficile per chi lascia. Difficile per chi resta, tutto è molto complicato. «Stiamo così, in attesa, nella precarietà assoluta. Nell’emergenza. Con i temporali che ci massacrano, ulteriormente. Senza prospettive, senza passato, sepolto e devastato, senza sapere di domani… Non ci fidiamo delle promesse…»: la signora, capelli bianchi, mezzo imbronciata, evita altre domande e sparisce. C’è inquietudine: per quel che è stato dalla maledetta notte del 24 agosto, quando la terra si è messa a tremare. E per quel che sarà. Vincenza è seduta a una delle panche di legno del tendone bianco della mensa. Fa un cenno con la mano, chiede di potersi “sfogare”… «È che nessuno ti informa, nessuno ti aggiorna, non sai che ti capiterà – sbotta – Il tempo passa, e tu stai fermo e aspetti, aspetti e basta. Noi non ce ne possiamo andare, non possiamo lasciare questo posto. Non ce lo possiamo permettere. Ci sono gli agnelli e le pecore da foraggiare e da sfamare, dalla mattina presto. Resteremo, sperando di riprendere le abitudini quotidiane, le solite azioni, ripetute, che però sono la tua identità. Si dice – aggiunge – che per quelli che si stabiliranno negli hotel sarà speso, per il mantenimento, 1.200 euro mensili ciascuno. Per noi, invece, che non ci muoveremo, ci saranno circa 6,50 euro al giorno. Una miseria. E mi fa rabbia».

Fuori un acquazzone, l’ennesimo, gli ombrelli che si slargano – uniche macchie di colore -, e la comparsa di alcune stufette, accatastate l’una addosso all’altra. «Siamo molto provati», interviene una donna che per 40 anni è stata a Roma e poi, avuta la pensione, si è stabilita in questi luoghi «per le temperature, sempre fresche». «Veniamo da una paura immane e quindi da una situazione tragica – evidenzia – Sono quindici giorni che stiamo senza un tetto, che dormiamo nelle tende e siamo avviliti, sconfortati, aspettando momenti migliori. Non c’è privacy, non c’è la giusta igiene. Confidiamo nelle istituzioni, speriamo».

Silvia è avvolta in un piumino azzurro. «Non si sta bene – attacca -, soprattutto ora che inizia a fare freddo. Comincia a stancare questa condizione, che è insostenibile. Anche se protezione civile e vigili del fuoco sono eccezionali, sono disponibili, ci aiutano, cercano di accontentarci in ogni modo. Quello di cui abbiamo bisogno ce lo danno. Però non è facile, specialmente con un tempo così. Pensi insistentemente a quello che avevi, a quello che non hai più, a quello a cui andiamo incontro, perché il peggio è già stato, ma la parte più dura viene adesso durante i mesi – dicono 7 – in cui verranno montate le casette (promesse da Errani, ndr) e noi saremo sballottati da un posto all’altro… Pensi ai figli, alla scuola, a come facciamo, a come li spostiamo, ci saranno i bus, i compiti. La vita ci è cambiata, ci è stata strappata proprio, spezzata. La nostra casa? Ha fatto il suo dovere, ci ha salvato tutti e quattro, ma non possiamo rientrarci perché le costruzioni attorno hanno collassato». Che farete? «L’idea è di stabilirci ad Ascoli, usando i contributi per l’autonoma sistemazione. Perché mio marito e io lavoriamo e i ragazzi vanno a scuola ad Ascoli e ad Arquata. In questa maniera restituiremmo loro un minimo di normalità. Sarà sacrificato sì, ma poi, sette mesi passano».

Sfiancato il borgo di Grisciano, i tetti sconquassati, le pareti dei fabbricati sfondati e sfaldati: nella piazzetta dei platani, con la bottega dei prodotti tipici e il bar appena sgomberato, c’è l’andirivieni dei vigili del fuoco che provvedono a rimuovere detriti, a recuperare beni con le carriole e a organizzare sopralluoghi per la verifica dello stato degli edifici, con l’obiettivo di definire le priorità di intervento. «È stata l’apocalisse – riflette Anna Coltella, mentre attende il turno per essere accompagnata nella propria abitazione -. È una realtà finita, non c’è più speranza. Eravamo in pochi, un pugno di residenti, però con tanti bambini, una macelleria, un alimentari. E con il turismo, che ci permetteva di campare. Ora più nulla e nei prossimi mesi sarà il deserto. E poi ci sono gli sciacalli, che si intrufolano per rubare, spesso, la sera. Io ho le coltivazioni agricole, un allevamento, non posso e non voglio spostarmi, perché spopolare questi territori vuol dire decretarne la morte. Anche se non ho ancora ben capito che fine faremo, io intendo ricominciare da casa mia».