L’ultimo grandissimo e programmatico pittore del sacro dell’età moderna è stato Van Gogh. Lo ha dichiarato egli stesso senza mezzi termini. «Avrei voluto dipingere solo il ’volto del santo’». Non altro, non esiste altro che valga la pena di dipingere. La pittura è calamitata dall’invisibile, da ciò che non ha forma, dal non ancora nato, dal non ancora venuto alla luce. Ma Van Gogh non sceglie la via più facile, non si appoggia sulle icone religiose della tradizione, non approfitta di una simbologia già codificata, non produce una scolastica dell’immagine sacra. Piuttosto egli affronta la natura. La forza suprema e sovrastante della natura. Allora dipinge i narcisi, le tempeste, gli inverni, i pini nella notte, i girasoli, gli ulivi accartocciati dal sole, i cieli stellati, i campi di grano. Il volto del santo non può essere ripreso direttamente, sfugge allo sguardo, non si lascia riprodurre. Giacobbe non potrà mai sapere il nome del suo antagonista. Di qui la forza unica della pittura del sacro che non può che ribadire quello che più avanti Paul Klee definì come l’essenza dell’arte pittorica: non riprodurre il visibile, ma rendere visibile.

Questa spinta della pittura verso l’assoluto, verso il «volto del santo», verso l’irraffigurabile, l’invisibile, ha trovato nella pittura italiana, dopo Van Gogh, rari interpreti. Si possono contare sulle dita di una mano. Giorgio Morandi, Alberto Burri, William Congdon ieri, Jannis Kounellis, Giovanni Frangi e il giovanissimo Ettore Frani oggi. Ma tra questi uno che merita un posto d’onore è senza dubbio Giorgio Celiberti. La sua pittura è interamente aspirata dal senso del sacro, presa dall’anelito verso l’assoluto; è pittura pura del volto del santo.
Vincere la notte
Terezin è sconvolgente per il pittore perché mostra, come ricorda Primo Levi, che lì, nelle prigioni senza aria del campo, nell’attesa senza senso della morte, nel buio impenetrabile del trauma dell’Olocausto, non c’è il volto del santo, non c’è senso del sacro. C’è, piuttosto, la sua muratura, la sua estinzione, la sua assenza siderale. Terezin è il tempo nero della notte. Ma il suo trauma è il trauma stesso della pittura. Come si può trovare la luce nel buio? Come si può estrarre il colore dalla notte? Come si può dare forma al caos dell’informe? Come si può sopravvivere all’orrore nudo del reale? La pittura di Celiberti trova qui la sua aspirazione più alta: vincere la notte, arrivare all’alba, non cedere completamente al nero. Celiberti-Giacobbe: spossato, frastornato, stanco, esausto, morsicato, risparmiato, sopravissuto. «Noi siamo quelli che resistono» disse Padre Paneloux, uno dei protagonisti de La peste di Camus, di fronte all’orrore insensato del morbo che spazza via la vita degli innocenti. Non c’è niente di più assurdo della morte di un bambino, ripete con insistenza lo scrittore francese. In questa morte si rivela il ritiro di Dio. Sulla scena non è il castigo inesplicabile, la mano enigmatica della provvidenza. No, piuttosto è la notte senza speranza del grido, l’abisso senza fondo della vita.

Ma è proprio qui – come accade anche per Van Gogh – che inizia la lotta del pittore con le tenebre, la sua insonnia fondamentale. Come Van Gogh, anche Celiberti sa benissimo la pittura in presa diretta del volto del santo scadrebbe nella celebrazione retorica, nel culto della reliquia, nel simbolismo religioso senza anima, nelle icone già viste. Anche per il maestro di Udine la via per accedere al volto del santo non è mai immediata, non è disseminata da santini, ma è una via tortuosa; non è mai naturalistica, imitativa, riproduttiva. Piuttosto c’è bisogno di passare dall’incubo dell’insonnia, dall’impossibilità del sogno, dalla violenza della notte che non finisce mai.
L’alfabeto che riaffiora
C’è bisogno di una combustione ulteriore per raggiungere il volto del santo, per riguadagnare nuovamente il respiro. Le lettere, i timbri, gli alfabeti sepolti dal tempo, i muri, gli affreschi mostrano l’incidenza dell’aspirazione all’inizio, all’Origine, all’archè. Ma l’Origine è perduta, l’inizio impossibile, la lettera A maiuscola persa per sempre. Il ritorno all’Uno è sbarrato; non dà pace, è impossibile. Prevale l’insonnia, la lotta tutta umana e mai conclusa per estrarre la luce dal buio della notte. Prevale l’insonnia di Giacobbe, il segno che si imprime, la traccia indelebile, il passaggio lento ma voluto, deciso, dal nero al bianco. L’emergere di un nuovo chiarore dalla ferita, dal trauma, dalla ripetizione del nero. L’emergere del cuore, dei cuori, delle farfalle, di una schiaritura del muro, di una nuova purezza. L’emergere di una scrittura sempre più fitta, compatta, martellante, che ritroviamo anche nelle Stele e nei più recenti cilindri quasi fosse un esorcismo nei confronti della Barbarie, un antidoto al male e al buio. I Fiori fossili, il Muro del pianto, le Tavole del Sinai sono come gli ulivi e i cieli stellati di Van Gogh o come i grandi Crocifissi di Congdon: volti del santo che nessuna notte può oscurare.
Alcuni trovano che la produzione di Celiberti sia eccessiva. Costoro sono mercanti e non sanno che essa, la pittura del maestro, sorge dall’insonnia, dalla sua fame d’aria, di mattina, di orizzonte. L’atto del dipingere coincide con la vita, è assimilabile in Celiberti, fuor di metafora, a quello di respirare. La sua costanza meticolosa, fisica, artigiana, trova qui il suo fondamento esistenziale e psicologico. Esistere significa dipingere, cioè rifiutare la notte, rifiutare il buio senza speranza della notte: esistere è resistere; resistere è dipingere. (…) La forza unica della pittura di Celiberti – e il suo espressionismo orginalissimo – è la passione, come lui stesso mi spiegò in una nostra conversazione, per l’interno-esterno, per quella estimità che unisce, in una sola comubustione emotiva, l’uno all’altro; l’attenzione intensa per il mondo e la sua interiorizzazione singolare. In questo senso la sua astrazione non si vuole mai emancipare dall’evento del mondo, ma è una figurazione del mondo, un’astrazione tutta materica del mondo. La pittura eleva così il segno (l’incisione, il graffio, la scanalatura, la marca, il timbro) alla dignità di un assoluto, alla dignità del volto del santo.L’archeologia di Celiberti è una archeologia del grido. Le lettere, i timbri, le stele, le parole, gli alfabeti cuneiformi di lingue inesistenti, le tavole del Sinai, sono solo traduzioni segniche del grido. Ma è il grido come tale che interessa primariamente Celiberti. Il grido, come per Van Gogh era il volto del santo. Il grido precede tutte le parole, ma non si può mostrare se non attraverso le parole.

Ai primordi della vita
Il grido precede tutte le rappresentazioni possibili, ma tutte le rappresentazioni ruotano attorno ad esso. Sappiamo che è attraverso il nero che inizia la pittura di Celiberti. Il nero è il colore del trauma dell’abbandono e del non senso della morte. Siamo immediatamente dopo l’incontro con Terezin.
La notte di Celiberti come la notte di ogni insonne è la notte della solitudine del grido che nessuno raccoglie. È la notte che trova la sua realizzazione più radicale non solo in Giacobbe ma ancora di più nella passione di Cristo; è la notte del Venerdì santo, la notte dell’abbandono assoluto dove Dio si perde nell’uomo, dove la sua gloria si incarna, s’incrina e si abbassa nell’esperienza «umana troppo umana» dell’abbandono. Nell’orto dei Gestemani nessuno resta sveglio, nessuno sa condividere con Cristo il peso della notte. Solo il figlio dell’uomo resta nell’insonnia, solo lui fa esperienza dell’abbandono assoluto. Ogni grande arte si avvicina a questo abisso, a questa esperienza innominabile dove il sudore diventa sangue. È la dimensione tragica che accompagna ogni gesto autentico di creazione. Non c’è forma, composizione, realizzazione del miracolo del quadro se non c’è prima sprofondamento, smarrimento, discesa gli inferi, incubo, insonnia.

[do action=”citazione”]Se da bambino Celiberti racconta che era attratto dal gioco dei timbri imbevuti di inchiostro, può ritrovare questa stessa procedura che gli viene a soccorso da lontano come un ritorno involontario della memoria[/do]

 

A Celiberti interessano le lingue, le lettere, gli alfabeti solo perché ne ha visto l’archeologia profonda nel grido, nell’esilio del grido. Campeggia spesso nei suoi lavori la grande lettera A. È la lettera dell’inizio, la prima lettera dell’alfabeto, la lettera che umanizza la vita. Prima di A – prima dell’esistenza del linguaggio, prima dell’esistenza dell’Altro – c’è solo il grido, c’è solo l’insonnia dell’abbandono assoluto. Ma Celiberti non si accontenta del silenzio. È questa la differenza da Morandi.
Diversamente dal grande metafisico di Bologna, Celiberti non sceglie il ritiro, «la fuga dal mondo», un «santo isolamento», l’eternità immobile delle nature morte. La sua pittura, diversamente da quella morandiana, vive l’insonnia, è attraversata dall’incubo atroce della storia. Le lettere T Z N rinviano al mostro della notte, allo scandalo assoluto della morte dei bambini di Terezin.

Anche queste lettere si ripetono come uno sciame disordinato in molte opere, senza legge, come per segnalare uno spettro che non passa, un passato che non si lascia dimenticare. Se da bambino Celiberti racconta che era attratto dal gioco dei timbri imbevuti di inchiostro, può ritrovare questa stessa procedura che gli viene a soccorso da lontano come un ritorno involontario della memoria.

Solo che adesso le lettere TZN – come l’apparizione delle svastiche – sono lettere di morte, sono le lettere che annunciano il ritorno del trauma nel reale. Eppure proprio perché vengono evocate grazie al dono del linguaggio, esse si caricano di poesia. Perché in Celiberti è solo la poesia che resiste alla morte; è la poesia il frutto buono dell’insonnia, dell’alba che viene.
Eros e thanatos
Di qui anche la sua ricerca compulsiva e inesausta sulle lingue, sui linguaggi, sulle parole, sui segni. Ancora la stessa esigenza: bisogna non lasciare essere il grido solo un grido. Celiberti va oltre l’urlo di Munch, oltre la melanconia di Van Gogh, oltre la disperazione cupa della notte. Il miracolo vivente della sua pittura consiste nel recupero del bianco, del chiaro, del perdono, della ricomposizione delle lacerazioni della vita esposta all’orrore del gelo della notte. In questo egli incrocia il tragitto di un altro testimone dell’orrore com’è stato Alberto Burri.
Anche qui abbiamo lotta, tensione, agonismo tra Eros e Thanatos e anche qui il miracolo della forma: l’equilibro, la cucitura dello strappo, la composizione della bruciatura, l’assemblaggio austero e sublime dei ferri, la bellezza struggente dei sacchi….Celiberti resta vivo in questa rotta che fu anche la rotta di Antoni Tàpies: i segni cha appaiono sui suoi affreschi non perseguono alcuna intenzione irreverente come avviene invece in Twombly, ma si confrontano con una problema di vita e di morte. Si confrontano con l’incubo dell’insonnia. Sono, diciamolo pure, segni che hanno conosciuto il sabato della storia, il freddo del sepolcro e sono risorti! Ecco il mistero del volto del santo; è il mistero dei segni risorti, della risurrezione del segno. Qualcosa appare «dopo una sorta di carbonizzazione».., qualcosa resiste, qualcosa si oppone al silenzio della notte.

Se la visione del lager è il tempo dell’orrore, se la farfalla, come scrive la poesia di un bimbo detenuto a Terezin, «non vive nel ghetto», l’ultima farfalla resa possibile dalla pittura è l’evocazione di uno spazio aperto che prende corpo solo nello spazio chiuso e angusto della prigione. «Cercare il perdono, l’amore», infittire la presenza dei cuori e dei chiari, ricercare la luce, estrarre la luce dalla tenebre non per contrapporre semplicemente il nero al bianco, l’orrore alla salvezza, ma per estrarre dal luogo dell’orrore, del trauma, della notte la potenza della redenzione. I fiori e le farfalle in Celiberti non sono semplicemente simboli di un’armonia risolta e pacificata, ma appaiono attraversati dal mistero della caducità e della morte.