Apparentemente esile e naif in modo disarmante, non è il tipo di film animato che ci si aspetterebbe di vedere per più di un’ora al cinema. Invece Il ragazzo che scoprì il mondo cattura da subito l’occhio dello spettatore, con la sua leggerezza colorata, e l’orecchio, con il calore delle sue sonorità acustiche. Il film scritto, animato, montato e diretto dal brasiliano Alê Abreu incanta, pur affrontando questioni serie, guidandoci con il giovane protagonista fra i paletti da superare nel mondo adulto. Trova la complicità dello spettatore e l’approvazione dei «fini conoscitori», tanto da vincere l’anno scorso i premi principali di giurie e pubblico ai festival di animazione più importanti del mondo, da Annecy a Ottawa.

Difesa salutare dal sovraccarico saturante di perfezione digitale, ritmi serrati e azione rapida modello major Usa, il film di Abreu fa ritrovare l’innocenza perduta dello sguardo. Un ritorno all’ essenzialità di figure bidimensionali quasi filiformi e alla gioiosa deflagrazione di colori pastello, al viaggio fantastico percorso a piedi e agli incontri casuali con originali personaggi immaginari possono essere un buon rimedio contro l’eccesso di produzione industriale potenziata e omologata. O Menino e o Mundo – questo il titolo originale portoghese del lungometraggio distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna- rappresenta così una boccata di aria fresca rigenerante.

Dopo una successione caleidoscopica di mandala ci si immerge subito in un’atmosfera fantasmagorica. Il protagonista e i suoi comprimari, a partire da un colorito artista di strada a cui si accompagna anche la bella colonna sonora del film, tutti dai contorni minimali su sfondo perlopiù chiaro, interagiscono in libertà. Nella migliore tradizione del percorso picaresco di formazione (dal Mago di Oz al viaggio di Chihiro de La città incantata gli esempi abbondano), un ragazzo curioso lascia il villaggio alla ricerca del padre scomparso per trovare invece un mondo abitato da animali-macchina ed altri esseri strani. Fra sogno e poesia, seguendo un itinerario stimolante e vivace, il protagonista cresce imparando ad affrontare i pur presenti problemi contemporanei: il lavoro industriale sempre più precario e spersonalizzante, la natura violentata, il grigiore sociale standardizzante, il burn out di massa. Fra i tanti fantasmi viventi normalizzati, a fatica gli sembra di intravvedere suo padre ormai irriconoscibile. Nutrito però di colori e musica, il ragazzo saprà comunque farsi uomo nuovo.

La musica gioca una parte importante e non solo in funzione subordinata all’immagine, bensì organizza e determina la costruzione di certe scene, conferendo ritmo, tono e colore. Come spiega Abreu: «Abbiamo trattato la colonna sonora come un corpo sonoro, in cui musiche, ambienti e suoni si mescolano e infrangono i limiti tradizionali dei film. Abbiamo innanzitutto cercato la melodia del flauto che apre e chiude il film. Tutti gli altri temi sono stati creati a partire da queste poche note. Volevamo incrociare diversi ritmi e stili musicali».

Ecco che fra gli artisti brasiliani coinvolti troviamo Ruben Feffer (fisarmonica) e Gustavo Kurlat, insieme titolari delle musiche originali e già collaboratori sperimentati da Abreu per il suo primo lungometraggio Garoto Cosmico. Partecipano poi il rapper di Sao Paulo Emicida («le musiche di protesta sono all’origine del film – spiega Abreu – e il rap oggi occupa questo posto»), Nanà Vasconcelos (percussionista jazz con 8 Grammy awards all’attivo), il gruppo percussivo-corporale Barbatuques e i bricoleurs sonori Gem con i loro strumenti e oggetti rumorosi fai-da-te. Da siffatto crocevia sonoro l’alchimia originale è inevitabile.

Con spirito altrettanto composito e variegato, per disegno e animazioni ricorre a tecniche miste «artigianali» pseudo-infantili e libere (matite colorate, pastelli ad olio, collage, ogni tipo di pittura, pennarelli e perfino penne a sfera), dando così sentita efficacia e vivacità alla sua storia.