È preziosa l’ultima produzione del Teatro alla Scala di Milano. È preziosissima in sé l’opera in cartellone fino al 17 ottobre, The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten, capolavoro assoluto del teatro musicale contemporaneo, adattamento dell’omonimo racconto di Henry James (1898), di cui la librettista Myfawny Piper esplicita i due aspetti essenziali e più conturbanti: quello sovrannaturale della ghost story (i fantasmi dei defunti Peter Quint e Miss Jessel) e quello psicoanalitico dei rapporti (colmi di tensione sessuale) tra adulti e bambini, che vengono intrecciati e lasciati aperti (i piccoli Miles e Flora sono alla mercé dei fantasmi? questi ultimi sono un’allucinazione della giovane Istitutrice? o sono una proiezione della sua sessualità repressa da un’educazione rigidamente puritana?). Centrali sono i temi, ricorrenti nelle opere di Britten, dei rapporti di forza e della perdita dell’innocenza, ben sintetizzati da una frase del libretto presa a prestito da William Butler Yeats: The ceremony of innocence is drowned (La cerimonia dell’innocenza è morta). Commissionata dalla Biennale di Venezia, l’opera debuttò sotto la direzione di Britten al Teatro La Fenice il 14 settembre 1954.

È prezioso l’allestimento attuale perché per la prima volta l’opera viene rappresentata alla Scala in lingua originale: in passato si conta solo un allestimento alla Piccola Scala nel 1969 (ripreso nel 1970), sotto la direttore di Ettore Gracis e la regia di Virginio Puecher, basato sulla traduzione ritmica in italiano di Roberto Sanesi.

È preziosissima la direzione di Christoph Eschenbach, direttore musicale della National Symphony Orchestra e del John F. Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, che valorizza ogni sfumatura di una partitura scarna (composta di appena 13 elementi) ma ricchissima, basata sull’irruzione progressiva nelle musiche che traducono il mondo della quiete, dell’incanto e dell’innocenza delle musiche che indiziano la depravazione, l’abuso, il turbamento, il sospetto (dissonanze, politonalità, sonorità che lo stesso Britten definisce «sospese» e «apprensive», ma anche il belcanto ipnotico di Quint, a metà strada tra la mozartiana Regina della Notte e il classico Orfeo). Eschenbach scolpisce in maniera cristallina una struttura musicale basata sull’esposizione iniziale di un nucleo generativo, il cosiddetto tema della vite (dodici suoni che, come nella dodecafonia, esauriscono il totale cromatico), variato quattordici volte in forma di interludio o commento, nelle altrettante scene del dramma, ogni volta a intagliare un ulteriore turn nel precipitare della trama verso il tragico epilogo.

Preziosa è anche la messa in scena curata dal regista danese Kasper Holten, Director of Opera al Covent Garden di Londra, insieme allo scenografo e costumista Steffen Aarfing, alla light designer Ellen Ruge e al drammaturgo Gary Kahn, visibilmente ispirata al celebre film britannico The Innocents (Suspense, 1961), diretto da Jack Clayton e interpretato da Deborah Kerr e Michael Redgrave: sia per l’austero bianco e nero (interrotto solo dal rosso dell’abito dell’Istitutrice, identico a quello di Miss Jessel, e dei capelli di Quint), sia per la costruzione scenica che riproduce l’aprirsi e chiudersi del diaframma di una macchina fotografica (versione meccanica dell’iride), che convoglia l’occhio dello spettatore sempre sul punto dello spazio dove si svolge il dramma (che è anzitutto un dramma della visione, dei fantasmi che essa genera e da cui è generata), risolvendo agilmente i rapidi passaggi di scena previsti dal libretto e dalla partitura.

È prezioso infine il cast, che annovera il tenore inglese Ian Bostridge, raffinato liederista che debutta nei panni di Quint e canta per la prima volta alla Scala in un ruolo scenico, il soprano svedese Miah Persson (Istitutrice), Jennifer Johnston (Mrs. Grose), Allison Cook (Miss Jessel) e le deliziose voci bianche di Louise Moseley (Flora) e di Sebastian Exall/Lucas Pinto (Miles).