Non è un remake, non è un remake….Abilmente diffuso tra le spire del cicaleccio incessante del festival, nei giorni che hanno preceduto la proiezione di The Beguiled, il disclaimer è, in effetti, una buona ricetta per avvicinarsi al nuovo film di Sofia Coppola, presentato ieri in concorso. Non necessariamente cercare di ignorare che, nel 1971, Don Siegel ha tratto dal romanzo di Thomas P. Cullinan un capolavoro lisergico, splatter e provocatorio come La notte brava del soldato Jonathan, in cui – a cinico predatore- Clint Eastwood (in uno dei suoi ruoli più deliziosamente autoironici) diventava la preda di un gruppo di feroci educande confederate. Quanto piuttosto non misurarlo come il termine di paragone cui la regista voleva avvicinarsi, e a cui si può aspirare solo per difetto.

Supremamente cool laddove Siegel era iperbolicamente infuocato, caustico piuttosto che perverso, asciutto invece che barocco, lineare/staccato invece che tortuosamente allucinatorio, raccontato in un’ottica femminile, non dal punto di vista del maschio, The Beguiled (da noi uscirà con il titolo L’inganno) secondo Coppola è una versione kabuki di Non aprite quella porta, starring le sorelle Lisbon. Il mistero etereo e spietato di Le vergini suicide, deve essere sicuramente stato nella mente della costumista Anne Roth quando, un paio di anni fa, ha suggerito a Coppola di rielaborare a sua immagine e somiglianza, il gotico meridionale di Cullinan/Siegel/Eastwood. Abbandonato – causa disaccordi creativi – un The Little Mermaid a grosso budget su cui era impegnata per la Universal, Coppola (che qui firma anche la sceneggiatura) si è tuffata negli ultimi, sbrindellati, capitoli della Guerra civile americana con l’eleganza sicura e minimalista che caratterizza il suo cinema.

Nuova al genere, e alle dinamiche di suspense intrinseche del thriller, in The Beguiled, la regista di Lost in Translation addomestica al servizio della trama il suo abituale girovagare narrativo, ma non rinuncia al gusto per le ellissi – anche a costo di lasciare nella penna, o tra un’inquadratura e l’altra, parte del succo, ma soprattutto del fascino contorto e dell’ironia di questa sua parabola femminista.

Introdotto dal canto di una bambina, il film inizia nel bosco come una fiaba alla Cappuccetto rosso. La piccola Amy, in cerca di funghi, trova il suo lupo – sanguinante, esausto e appoggiato a un albero. È il caporale John McBurney, (scopriremo) un mercenario irlandese al soldo delle truppe nordiste e interpretato con piglio non convintissimo da Colin Farrell. Amy lo porta al collegio per signorine dove alloggia, una Tara semiabbandonata tra il verde, in cui la direttrice Ms. Martha Fansworth (Nicole Kidman, nel ruolo che fu di Geraldine Page) si ostina a dar lezioni di francese e musica alle cinque, sparute, studentesse che le sono rimaste dopo che persino gli schiavi se la sono data a gambe.

Nell’aria i colpi di cannone e le nuvole di fumo di qualche battaglia poco distante, la Fansworth School for Girls è una capsula fuori dal tempo, le sue allieve – bianche magnolie del Sud – educate per il debutto in una società che non esiste già più. Inizialmente indecise se accudirlo o espellerlo, denunciandolo alle truppe sudiste di passaggio con uno straccio blu legato alla cancellata, Ms. Martha e le ragazze cominciano a vivere la presenza del soldato come un incantesimo esotico, ognuna proiettando sogni segreti sulla sua silhouette, stesa nella penombra di una stanza. La direttrice, divisa tra l’attrazione e il senso di responsabilità, la scialba Edwina (Kirsten Dunst) che se ne innamora, Alicia (Elle Fanning) quella più liberata sessualmente…

Nei vecchi corridoi è una nuova energia, un andare e venire furtivo dalla stanza del ferito… E la prima sera che lo invitano «ufficialmente» a mangiare con loro, direttrice e studentesse si presentano agghindate e ingioiellate come se la guerra non fosse mai scoppiata. Il loro colorito più fresco sulle guance, e i sorrisi sottesi evocano l’ombra impercettibile di un banchetto di vampiri. È una delle scene più riuscite, e una delle poche in cui Coppola allenta il suo tono matter of fact in virtù di un registro più suggestivo. L’aplomb con cui controlla quasi tutto il film – prosciugando non solo il gran guignol di Siegel ma anche la qualità manipolatoria che Eastwood aveva portato al personaggio del soldato, qui molto più passivo – la serve benissimo nell’ultima inquadratura, una foto di gruppo con cadavere. Peccato che il film non sia sempre altrettanto vivido.