Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, quando era operaio su una piattaforma di estrazione del petrolio nel golfo del Messico, Richard Linklater pensava ancora che la letteratura avrebbe accolto le sue ambizioni artistiche. Ma, nei periodi di pausa dal lavoro, sulla terraferma, passava la maggior parte del suo tempo nelle sale dei cineclub. Tornato nella sua Austin, ne fondò uno con degli amici: la «Austin film society» che, oltre a organizzare retrospettive, ha prodotto anche i suoi primissimi films. Tra i suoi campioni, ci sono James Benning, Orson Welles e… Jean-Luc Godard. Basta questo per stabilire un legame tra Godard e Linklater – al di là del fatto che i loro due film, Boyhood e Adieu au langage, escono a breve distanza sugli schermi italiani? In realtà, l’esperienza mostra che, al cinema, ogni accostamento è prolifico, ogni «double bill» è possibile. Quello tra Linklater e Godard non è particolarmente evidente.

I primi film di Linklater sono un campionario di idee e forme tipiche del cinema indipendente americano da un lato e di una generazione di mezzo, più giovane di quella della Nuova Hollywood. I titoli sono tutto un programma: It’s Impossible to learn to plow by reading books (1985), Slaker (1991), La vita è un sogno (1993). Linklater si «trova» come cineasta in un film apparentemente più ordinario in realtà personale e innovativo: Prima dell’alba (Before Sunrise) 1995), primo episodio di una serie che, per il momento, ne conta tre, girati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro. Due ragazzi, nordamericano lui, francese lei, si incontrano su un treno che attraversa l’Europa dell’est. Decidono di passare una notte insieme a Vienna. Camminano, si parlano, salgono sulla ruota dove Orson Welles, quarant’anni prima, nel Terzo uomo, aveva incontrato Joseph Cotten.

In quell’omaggio di Linklater al film di genere c’è forse una pista, quasi ci dicesse, ironico: guardate, nel mio film, non c’è un terzo uomo. Detto altrimenti, non c’è incomodo, non c’è un «problema» che la coppia deve risolvere, c’è solo la coppia. E la radicalità del film sta in questo scarto dalla tradizione che consiste nel non costruire la storia su un incidente, sia esso un amante, una malattia o altro, che perturba la vita dell’eroe e che il film deve risolvere. Scarto che appare banale solo se si vuole ignorare il peso della struttura nel cinema americano, matrice di tutte le sceneggiature, dalla fantascienza: un problema personale e generale al tempo stesso, uno sviluppo, una falsa soluzione che precede e introduce la vera.

Con Before Midnight, Linklater abbandona questo «linguaggio», pur restando nella narrativa che, liberata dal peso delle sue regole auree, si abbandona al tempo, al piano sequenza, ad un cinema che, se non fosse di finzione, diremmo quasi di osservazione. Non viene, questo cinema, dall’intuizione che ebbe Godard dopo aver visto, nel 1954, Viaggio in Italia di Roberto Rossellini

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Godard, che ne parla spesso, ebbe un vero shock scoprendo che per Rossellini una coppia in macchina era sufficiente a costituire la base di un film. E che non c’era bisogno d’altro. Shock perché la scoperta lo conduce ad un vero e proprio rompicapo: da un lato, Godard ha l’impressione che una coppia e una macchina bastano, d’altro canto non riesce ad accontentarsi di questo materiale così semplice. Non perché esso sia troppo povero ma al contrario proprio perché nella sua essenzialità è inesauribile. Da Fino all’ultimo respiro (1960) fino ad Addio al linguaggio, passando per Il bandito delle ore undici (1965), Prénom: Carmen (1983), Nouvelle Vague (1990)… E il film gemello di Adieu au langage: Puissance de la parole (1988), tutti i film di Godard mettono in scena una dialettica dell’amore che diventa di volta in volta sempre più essenziale tra un uomo e una donna.

Dialettica dell’amore che in fondo è una sceneggiatura scritta con Rossellini negli occhi ma con Mao nella testa: uno si fa due, due si fa uno. Movimento incessante della vita che la musica descrive meglio ancora delle immagini, scarto permanente tra l’avvicinarsi e l’allontanarsi, non soltanto della coppia di amanti, ma di ogni cosa, concreta o astratta. Nella dialettica godardiana troviamo un moto incessante di composizione e ricomposizione di opposti come la bellezza e la bruttezza, la natura e la tecnica, la forza e la debolezza, l’umanità e l’animalità. Il linguaggio stesso è potente e impotente: nella misura in cui il significato prende forza, il significante ne viene schiacciato e viceversa.

La parola contiene le cose e le uccide al tempo stesso. Ecco che Godard ne fa un uso esacerbato e diffidente, amplificandole fino a distruggerle o ad assimilarle ad immagini. La somma di questa lunga riflessione è il cinema stesso, che si disincarna della narrativa, film dopo film, ma che si raccoglie sempre di più in una narrativa fondamentale – la coppia che perennemente si attrae e si respinge magneticamente.

E il cinema è allora essenzialmente il tempo, non il tempo in assoluto ma quello proprio cinematografico, discreto e continuo, fatto di fluire di immagini ma tra loro separate. È questo il punto dove Linklater incontra Godard.
Boyhood è un film che non dice assolutamente nulla (di fondamentale) sull’infanzia o sull’adolescenza o sulla famiglia. È un film che è stato costruito per osservare semplicemente il tempo del cinema. Per osservare il dileguarsi, lento, incessante, imprevedibile, dell’uguale al cinema. Da non confondere con l’idea di filmarsi o fotografarsi per anni e anni e di passare rapidamente queste immagini in accelerato – idea che sembra legata all’epoca dell’immagine digitale. Che non si tratti di questo, o non solo banalmente di questo, in Boyhood, Linklater ce lo dice scegliendo di filmare in pellicola. Dodici anni fa, quando il suo progetto è cominciato il digitale esisteva ed era già chiaro che la pellicola sarebbe scomparsa.

Linklater ha pensato che il processo sarebbe durato abbastanza a lungo per permettergli di terminare il film senza cambiare supporto. Se avesse scelto il digitale (che nel frattempo è passato attraverso una miriade di miglioramenti tecnici) la sua immagine non avrebbe avuto quell’unità estetica che rende possibile Boyhood, il quale non è tanto un film sul passare del tempo o, come ci si poteva attendere, una concentrazione di dodici anni in poche ore ma un film che nel passare del tempo oggettivo trova una produzione di tempo supplementare. In questo tempo creato e creativo, c’è un adolescenza che riesce ad essere veramente piena, nonostante il tempo e il luogo apparentemente ameni, lontano dai grandi centri produttori di immaginario tradizionale che sono New York e Los Angeles.

Anche questo è un tratto o una conquista che accomuna Linklater a Godard: un film non è meno pieno, meno capace di produrre esperienza, solo perché è girato in quella che sembra essere una periferia o un piccolo centro. La libertà del cinema e il modo moderno di essere hollywoodiani corrispondono a trovare un dispositivo che ribaltando la realtà che abbiamo sottomano ne trasforma la finitezza in infinità, scovando nella parte un mondo completo, che limitano soltanto l’immaginazione e il desiderio.