È stato pubblicato da Moretti&Vitali il testo poetico di Ida Travi intitolato Tasàr. Animale sotto la neve (pp. 139, euro 14). Con questo libro l’autrice chiude un ciclo che è iniziato con Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011), e che via via si è snodato in diversi momenti: Il mio nome è Inna (2012), Katrin. Saluti dalla casa di nessuno (2013), Dora Pal. La Terra (2017). È una vera e propria saga alla quale noi torniamo di libro in libro e che ci fa entrare in un luogo intermedio, una terra ai margini in cui il tempo è sospeso. Una piana alla periferia, un campo al di là dell’autostrada. Un casolare, un rifugio, poche cose. Non al centro della vita pulsante ma neppure estraneo a essa.

Ciò che è contemporaneo ricade in esso senza suono, con un che di sordo, senza luce. Questo crea un’esperienza simbolica per la quale finiamo per osservare con un altro sguardo il mondo quotidiano. Gli abitanti di questo spazio vengono chiamati i Tolki, in quanto esseri che parlano, da , parlare. Sono una donna, un uomo, una ragazza, un bambino, una vecchia ed altre figure apparentemente senza tempo. Ognuno di questi libri ha avuto un protagonista diverso a cui l’io femminile che assume la parola si rivolge: ora l’uomo, ora la ragazza e così via. Ecco che, in quest’ultimo, è la volta di Tasàr a essere l’interlocutore privilegiato. Tasàr è un asino e, come viene detto nel testo, è l’alterego di Balthazar, indimenticabile figura di un noto film di Bresson. Un animale dunque, un asino dallo sguardo quieto, che è interpellato più volte nel poema ma la cui risposta è muta, legata all’esserci più che alla parola. Paradossale che un animale silenzioso concluda come in una parabola una saga affidata nei testi precedenti al dire, anche se si tratta di un dire smozzicato, ellittico, di parole volutamente semplici, ma che allo stesso tempo raccolgono in sé proprio perciò un’energia attiva. Qui, in quest’ultimo libro, la lingua si arrende al silenzio dell’animale.

DANIELE BARBIERI osserva nella Nota conclusiva che c’è una disposizione precisa che regge questi cinque libri, quella di un io che si rivolge a un tu che è lì presente, attirando l’attenzione, richiedendo la fiducia, ammonendo, ricordando, promettendo. Questo crea una forte sensazione di immediatezza, «di essere lì, che tutto stia succedendo ora». Il tu può variare. In questo volume è soprattutto Tasàr, l’asino, nella sua solitudine muta, a venire al centro della scena, interpellato dall’io femminile che lo indica agli altri. Con questa disposizione la scrittura è profondamente fedele a quella presenza dell’oralità nella poesia che è uno dei più importanti temi della poetica di Ida Travi: la voce segue il ritmo ricorrente del vento e così tiene assieme il canto e la parola. La voce è fedele al corpo, al suo risuonare e ai lati in ombra dell’esperienza. Ma in più l’insistenza del rivolgersi a un tu, con ansia, dubbio, speranza, ci coinvolge in un testo che è strutturato in modo che ne avvertiamo l’impellenza politica e ci cattura quasi fossimo noi quel tu che viene chiamato a rispondere. Quasi fossimo noi a dover farci carico di ciò che è sollevato come una domanda dall’io in questa terra ai margini, solitaria e singolare.

COME SI MANIFESTA qui l’urgenza politica? Agli inizi leggiamo versi che fanno sentire il dolore del mondo: «Cantava la grondaia, cantavano/ le fronde, cantava la ragazza/ minacciosa, minacciosa (…)/ Scende dolente la litania/ sopra la terra antica/ disinnescata, nera». Lo scacco dell’umano e della sua lingua fa percepire la qualità tragica dell’esistenza: «Ho fatto tutto quello che potevo/ di più, davvero, non potevo/ e se la terra non è felice/ cosa posso farci io?». Certo, c’è il campo ai margini della città dove rifugiarsi e resistere. Ma sarebbe un errore pensare che la mossa politica cui si allude stia solo nella resistenza: sta in qualche cosa di più e di diverso.

In questo libro c’è uno scarto rispetto agli altri, in particolare al penultimo, Dora Pal. Là la vecchia nomina le cose, mostrandole e indicandole: questo è l’albero, questo è il quartiere. Il gesto linguistico è efficace quando è in presenza delle cose ed è compiuto rivolgendosi a chi chiede il nome, proprio come avviene nella lingua della madre che si rivolge ai piccoli. Invece in Tasàr tutti non solo sono incerti del proprio nome, ma non sanno più dare nomi alle cose. Vivono una sfasatura tra l’esserci e il nome: «Noi lo chiamiamo Antòn/ ma non si chiama Antòn/ volevo dirtelo/ E io non mi chiamo Sunta/ chissà come mi chiamo io/ mi riconosci?/ Quando saremo sul monte chiederemo/ al cielo, e il cielo ci darà il battesimo/ (…) E allora saremo liberi/ Kraus, saremo liberi!». Questo avverrà. Nell’attesa valgono la pazienza, l’attenzione, le parole rituali. Ma soprattutto sentire il legame con l’animale, imparare da lui.

GLI ANIMALI sono infatti più vicini alla terra e perciò più prossimi all’inizio. Simili in questo ai bambini, che hanno con la terra un rapporto di consuetudine. Alessandra Pigliaru nella Nota al testo suggerisce che proprio gli animali come i bambini sono gli esseri che ci avvicinano al tempo nuovo che sta per venire. Cita questi versi: «Il bambino e l’animale/ sembrano fratelli, sono uguali/ aspettano così tranquilli/ Li chiamo, e non girano la testa/ sono d’oro, sono nel tempo d’oro/ io non li stacco dalla loro eternità/ Dovrebbero farci scuola, dovrebbero/ dirci cosa c’è nell’oro/ perché io l’ho perduto l’anello/ e tu?». L’animale diventa così intermediario per un desiderio di infinito che sentiamo allontanarsi. Come scriveva Simone Weil, noi abbiamo bisogno di ponti, mediazioni per entrare in contatto con ciò che non è riducibile alla necessità dei rapporti di forza che patiamo. Il testo indica una via: nel nostro presente povero di immaginazione politica gli animali offrono a noi umani – se sapremo interpretare – le tracce di una forza visionaria che non troviamo più in noi stessi né leggiamo nella storia. C’è un frammento nel testo in cui la poeta opera un fermo-immagine sugli occhi dell’asino. Occhi che orientano e possono guidare il nostro sguardo per vedere qualcosa d’altro, che non sappiamo scorgere. La calma straniante dell’animale ci suggerisce un certo modo di stare al mondo che permette di ricreare il cerchio tra il cielo e la terra. Ci aiuta a sentire la risonanza con il mondo e dunque il legame con la parola, di cui abbiamo perso l’anello di congiunzione.

Ciò avvicina questo testo all’attenzione nuova che la nostra civiltà ha per l’animale come intermediario verso qualcosa di perduto, eppure essenziale, enigmatico. I cinque libri che compongono la saga dei Tolki disegnano un mondo segnato dal senso di questa perdita, di tale mancanza. Vi sono però molti indizi di rinascita. Occorre ascoltarli: in questo testo l’animale, in altri il bambino, il contatto con l’ombra e il sogno, la neve che quando arriva copre tutto e tutti e prepara nel silenzio un nuovo germinare della parola. Nell’intero ciclo ciò che ci accompagna in sordina è la tonalità che chiamerei del dire sì alla realtà. Qui è espressa dalla presenza dell’animale in quanto è, nel suo esserci, intonato in modo semplice al mondo.