Le vicende legate alla nostra storia coloniale, alla sua pretesa missione civilizzatrice e al relativo carico di inquietudini, orrori, suggestioni e violenze hanno trovato la loro rappresentazione letteraria in un ragguardevole numero di scritti: dai romanzi apparsi alla fine dell’Ottocento a quelli di regime pubblicati tra il 1920 e il 1930, dalla celebre narrazione di Ennio Flaiano ai recentissimi libri di Gabriela Ghermandi e Maaza Mengiste, occorre sottolineare come il colonialismo italiano sia stato e continui essere un tema la cui complessità sembra capace di suscitare l’interesse e la riflessione di parecchi autori, diversissimi tanto per origine quanto per formazione.

FONDAMENTALE, nell’ambito di questa produzione letteraria, appare l’indagine sul rapporto tra l’europeo e l’africano, l’oppressore e il soggiogato, l’uomo «civilmente progredito» e l’indigeno da civilizzare. Una disamina che Enrico Emanuelli (Novara 1909 – Milano 1967) ha posto al centro di Settimana nera, il suo romanzo del 1961 riedito da Mondadori (pp. 144, euro 13) in una edizione arricchita dalla lucida e acuta prefazione di Igiaba Scego.
Ambientata nella Mogadiscio degli anni Cinquanta, quando gli italiani furono invitati dalle Nazioni Unite a tornare nel loro ex possedimento per gestire l’amministrazione fiduciaria decennale (Afis) e traghettare la Somalia verso l’indipendenza, la narrazione mostra con estrema efficacia come il colonialismo abbia spesso soltanto cambiato le proprie modalità operative, passando dallo staffile ai condizionamenti psicologici. Ai quali – oltre all’arroganza dei comportamenti e alla tendenza alla sopraffazione – va ad aggiungersi l’insieme di ipocrisie e autoinganni che l’anonimo protagonista del romanzo utilizza per mettere a tacere la propria coscienza: fino a quando il dialogo con un compatriota e il suicidio di quest’ultimo non lo costringeranno ad aprire gli occhi sulla realtà che lo circonda.

UN CONTESTO caratterizzato dalla prepotenza, dalla volgarità e dalla perfidia, quello descritto da Emanuelli; in cui Regina, la bellissima somala che – prestata, al pari di un giocattolo, dal suo padrone a un conoscente – ne soddisfa ogni desiderio, non è soltanto il simbolo di un’Africa calpestata ma anche di una condizione femminile: ha ceduto per sopravvivere ma non ha perso un briciolo della propria dignità. La donna sembra, in altri termini, accettare la propria sorte limitandosi a pronunciare solo qualche parola ma non manca di esprimere il suo disprezzo: lo fa, però, attraverso il silenzio.
Calato inoltre in un’atmosfera intrisa di sensualità il romanzo – dalla prosa scorrevole e incisiva che si connota per la concisione dei periodi e la rapidità del ritmo – appare tutt’altro che rassicurante dal momento che, al contrario, ci spinge a meditare sui nostri trascorsi coloniali e ad abbandonare finalmente al proprio destino formule autoassolutorie e consolatorie – quali «italiani brava gente» – che hanno ormai fatto il loro tempo.

L’AUTORE NON TEME di descrivere invece le nefandezze commesse da molti dei nostri connazionali descrivendoli alla stregua di fascisti fanatici: individui abituati a usare le maniere forti, a comandare e a pretendere che i somali – considerati inferiori – ubbidiscano immediatamente. Gente che «ha nel sangue una malattia inguaribile», sottolinea l’io narrante.
Si tratta, insomma, di un mondo coloniale che – seppure dichiarato ufficialmente defunto – rimane ben presente nella testa e nei comportamenti di tanti italiani ed europei la cui quotidiana, cinica malvagità non sembra suscitare lo stupore né l’indignazione altrui. Scrive, al riguardo, Igiaba Scego: «Emanuelli nel romanzo indaga il male, e nel suo scandagliare troviamo la ragione della nostra lettura. È un libro che il male non lo evita, non lo edulcora, non lo maschera». Un’osservazione che coglie nel segno e ci invita ad attribuire a Settimana nera tutta l’importanza che merita.