«Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate» sosteneva Nietzsche in Così parlo Zarathustra, parole «prese in prestito» da Ananda Coomaraswamy, immenso filosofo e storico dell’arte indiano, per sintetizzare, in poche battute, la percezione dell’unità e dell’interdipendenza di tutte le forme d’arte.

Sulle tracce del suo sempre fertile pensiero, al LAC di Lugano va in scena, fino al 17 dicembre, Affinità elettive – India 1947-2017: il cinema e gli altri linguaggi delle arti, una rassegna cinematografica ideata e curata da Marco Müller che intende ripercorrere settant’anni di storia, cinematografica e non, dell’India, una proposta di mappatura di un continente di «scambi di senso».

Apertasi con la proiezione del capolavoro Kalpana/Imagination, kolossal musical-surrealista post-indipendenza del coreografo Uday Shankar, la rassegna, oltre 60 ore di immagini in movimento, prosegue con un’attenzione particolare per due straordinari cineasti.

Il primo è Mani Kaul, allievo di Ritwik Ghatak e pioniere della Nouvelle Vague indiana degli anni Sessanta, il quale, prima con il cortometraggio del 1968 Forms and Design poi con Mati Manas, documentario del 1984 sulle terracotte e le ceramiche artigianali, sembra annullare lo spazio-tempo, comprimendo l’azione e invitando ad affusolare lo sguardo, a diventare spettatori/artigiani in una sorta di pedagogia della visione nella quale poter «illudersi» di tornare a quell’età aurea dove la concezione dell’arte era legata essenzialmente a qualcosa di vero e necessario, a quell’utopia platonica nel non distinguere fra belle arti e arti applicate.

In questo doppio binario di azione/contemplazione, Kaul riflette anche sulla consistenza del linguaggio cinematografico e sulle potenzialità di una macchina da presa che esprime il desiderio continuo di una presa di contatto e di congiunzione con il creato, nelle sue coniugazioni tanto eteree quanto carnali.

Lo sguardo di Kaul abbraccia e disegna traiettorie e panoramiche nello spazio, tracciando languide geometrie per ristabilire legami, non solo di tempo, e non appare casuale che il corpus filmico di Kaul sia stato enorme fonte di ispirazione per Amid Dutta, regista e critico d’arte indiano a cui la rassegna dedica ampio spazio, presentando anche il suo ultimo lungometraggio del 2017 Agyat Shilpi. Saatvin Sair/The Seventh Walk, ritratto sui generis del «pittore di paesaggio» contemporaneo Paramjit Singh, sembra essere il punto d’incontro fra l’eredità di Kaul e le più moderne «posizioni» del cinema espanso.

Abolendo ogni intromissione «didattica», Dutta rinuncia al commento e alla parola affidandosi unicamente a qualche cartello e ai suoni della natura, echi portatori di memoria, note immutabili di una sinfonia pastorale dove la ripetizione del movimento e delle linee creano un andamento ipnotico, e dove l’intensità del rapporto con la materia «mondo» sembra forgiare, oltre all’immaginario del pittore, anche il digitale del regista.

Dutta scandaglia, fin dalle prime inquadrature con la sua liquida macchina da presa, l’invisibile, assumendo subito cadenze e ritmi, colori e rumori di razionale, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico dove la bellezza è qualità essenziale del mondo e la vera sfida per il regista, completamente riuscita, giace nel coraggio di filmarne la naturale poesia. Il paesaggio della valle di Kangra così, già filmata nello splendido Nainsukh, fin dalle prime inquadrature sembra assoggettarsi a una struttura rigorosa, a simmetrie perfette, al contrasto fra elementi orizzontali e verticali ma, amplificando i suoni del mondo, gli unici ancora in grado di tramandare il sapere ancestrale, Dutta conferisce così, come direbbe Novalis, all’ordinario un senso elevato, al quotidiano un aspetto misterioso e al noto la dignità dell’ignoto.