Cosa ne avrebbe detto Antonio Gramsci? La domanda si insinua molesta, mentre assistiamo a Lingua madre, la nuova creazione di Lola Arias presentata all’Arena del Sole bolognese. Un’enciclopedia sulla riproduzione nel XXI sec., dice il sottotitolo proiettato sulla parete che sovrasta la scena e funge anche da schermo per la proiezione delle immagini che corredano lo spettacolo – a volte riprese in tempo reale mediante due telecamere. Siccome le parole sono importanti, come si sa, parlare di riproduzione e mai di maternità ha un peso specifico e indirizza lo sguardo. Giacché al centro dello spettacolo ci stanno le “storie di madri migranti, madri transessuali, madri che hanno fatto ricorso alla fecondazione assistita, madri lesbiche, padri gay, madri adolescenti, donne che abortiscono, madri che hanno adottato, donne che non vogliono avere figli e molte altre persone che si chiedono come reinventare la parola madre”, elenca minuziosamente il programmino di sala.

L’ENCICLOPEDIA è suddivisa in capitoli debitamente numerati. Si comincia con Educazione sessuale e si prosegue con Aborto, Desiderio, Parto, Famiglia e così via. Otto in tutto. Otto sono anche le/gli interpreti raccolti fra gli abitanti della città nei due anni di ricerca che hanno portato alla nascita dello spettacolo. Che in realtà sono anche qualcosa di più che interpreti. Raccontano a pezzi le loro storie, le rimettono in atto, tornando indietro nel tempo, agli anni settanta delle lotte e della pubblicità che confinava le donne dentro casa.

Argentina quarantenne ora di base a Berlino, Lola Arias l’avevamo incontrata per la prima volta tre anni fa, proprio su questo palcoscenico, con un ambiguo Atlas des Kommunismus, che portava sulla scena le memorie divise di un gruppo di donne di età ed esperienze di vita diverse, cresciute tutte nella Ddr, la ex repubblica democratica tedesca. Ognuna con un proprio pezzo, un tassello del complicato mosaico tedesco-orientale. Così come in Minefield la regista aveva messo a confronto i ricordi di sei veterani della guerra delle Falkland/Malvinas, combattuta su fronti opposti.

Siamo dunque all’interno di quel teatro che con una certa approssimazione viene definito documentario e appare ormai diventato un genere, e vuol dire cercare nella realtà le storie che oggi vale la pena raccontare. E portarle sulla scena con chi le ha vissute. Con tutti gli slittamenti che ciò comporta, dalla decostruzione della memoria personale al formarsi di una narrazione collettiva. Un genere che ha da tempo i suoi capofila in Rimini Protokol o Milo Rau.

CIO’ CHE MANCA in Lingua madre è però proprio l’elemento dialettico che dalla tragedia greca a Brecht costituisce un po’ il sale del teatro. Gramsci un secolo fa tesseva l’elogio della pochade, della pura macchina teatrale, a confronto dei teatroni “cosidetti seri” che vogliono truffare la buona fede degli spettatori. Nessuna equazione di primo grado, per carità. È che non si può che essere d’accordo sui temi sollevati dallo spettacolo, i diritti delle persone Lgbtq e oltre, anche sul terreno della procreazione. E c’è da scommettere che fra gli spettatori, non molti ma amichevoli, pochi siano i seguaci di quel politico che vorrebbe ripristinare sui documenti le vecchie categorie di padre e madre. Del resto qui si vive nel migliore dei luoghi possibili, pare di capire. E se la funzionaria comunale va per un momento in confusione su cosa indicare nella carta di identità della figlia di chi ha fatto la transizione, ci pensa poi la dirigente, novella dea ex machina, a mettere le cose a posto. Sicché alla fine, mentre lo Stabat mater accompagna la predizione di una ipotetica “madre futura” ancora da inventare, non si sa che dire.