La nostra identità nazionale almeno per la parte culturale poggia sulla lingua (italiana), ma senza cedere a ironia sulle peripezie linguistiche e sugli smarrimenti lessicali e sintattici della politica attuale – la cui residua certezza si sperde in inutili opzioni anglofile – occorrerà pur dire che, a ogni passo, giorno dopo giorno, quell’identità si mette a rischio. Però, per dire, che cosa sia l’Accademia della Crusca bene o male ora lo sanno quasi tutti, almeno dall’immortale discussione sul «petaloso» in poi, quando è arrivata agli onori delle cronache senza più tornare – è una fortuna – nei suoi austeri saloni.
Dunque, perfino ai non addetti ai lavori in senso stretto pare di poter osservare che l’attenzione per i fatti della lingua italiana gode di buona salute sia sul piano divulgativo sia sul piano propriamente scientifico e di ricerca. Dagli interventi su carta stampata e in tv ai manuali di istruzioni per l’uso o di pronto intervento aulico o pop fino al ripensamento dei punti fondamentali dell’organizzazione e dell’articolazione della nostra lingua, il lettore anche semplicemente curioso ha una grande varietà di riferimenti. Tra i molti titoli a disposizione – e per quanto è possibile riferire in una nota – tre libri segnano percorsi che danno conto della varietà che si diceva, mettendo a fuoco lo stato dell’arte. Intanto il quarto volume di un’opera imponente, la Storia dell’italiano scritto che si specifica nel sottotitolo come dedicato alle Grammatiche (a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin, Carocci editore, pp. 527, € 46,00) e che segue i primi tre incentrati su Poesia, Prosa letteraria e Italiano dell’uso (non si mancò a suo tempo di darne notizia su «Alias D»). Anche in questo caso, oltre tutto il resto, si tratta un modo per fare storia attraverso la lingua e le sue istituzioni: è solo una delle chiavi attraverso le quali il volume può essere letto frequentato o consultato, e mostra come da micro fatti (le parti del discorso e la loro organizzazione secondo una prospettiva diacronica e teorizzante, micro nei confronti della storia generale, come può essere un punto e virgola o un ottativo) il macro sia già diagnosticabile, per sintomo. Per coloro ai quali dalla scuola fu consegnata l’idea di grammatica come mera sistemazione, quasi immutevole, percorrere i saggi contenuti in questo volume è una vera e propria avventura, segnata da un continuo divenire, da una mobilità (e da una volatilità) non si dice imprevista – se dopo la scuola la vita ha insegnato qualcosa – ma certo, a una visione d’insieme, assai più movimentata di quanto non si sarebbe immaginato. La scuola e l’educazione: i due istituti ai quali, discorrendo di lingua, il riferimento viene quasi naturale, come gli ambiti propri di una dimensione di civiltà – e, si ripete, di identità.
Per un fascicolo di «Nuovi Argomenti» intitolato Che lingua fa? (2016), Tullio De Mauro scrisse per il «Diario» – l’editoriale della rivista – quelle che forse sono le sue ultime pagine, un ripercorrimento della questione della lingua nell’ultimo cinquantennio: il medesimo filo sotterraneo lega i saggi e gli studi del grande studioso ora raccolti in L’educazione linguistica democratica (a cura di Silvana Loiero e Maria Anonietta Marchese, Laterza «BUL», pp. IX-284, € 20,00). L’impegno politico in accezione alta e nobile è stato costante nell’attività di De Mauro, che ha sempre tenuto lo sguardo sulle questioni relative al sostantivo del titolo attraverso l’istituto del primo aggettivo allo scopo di accentuare ove possibile ciò che è richiamato dal secondo aggettivo. Sentimentalmente, si tiene a memoria l’intervento sul linguaggio della Costituzione, ma per portata storica, bisogna andare all’appendice, alle famose Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), manifesto e sintesi del lavoro da fare a scuola e in ogni luogo. De Mauro tornerà sull’argomento trenta anni dopo, per contestualizzare e ricollocare quella proposta, a partire proprio dall’accoglimento dell’aggettivo «democratico», di ricezione assai conflittuale. Due passaggi valgono come invito a inoltrarsi in pagine ricche di spunti e assai più inquiete di quanto l’umorismo – sì, anche l’umorismo; e l’ironia – di De Mauro mostrino. Trenta anni dopo scrive che nelle tesi «permane al fondo lo sforzo di una elaborazione teorica il cui cardine è il concetto di flessibilità della parola, come principio della variabilità non solo delle lingua attraverso il tempo e lo spazio, ma della variabilità interna di ciascuna lingua all’interno di uno stesso contesto sociale»; e più avanti: «Il rifiuto della grammatica scolastica precoce non era dunque antigrammaticalismo, era il rifiuto del monolinguismo normativo». Se sembrano cose evidenti, va detto che nel 1975 non lo erano.
Sono questioni affrontate anche nell’ultima parte di Per l’italiano di ieri e di oggi di Luca Serianni (il Mulino «Collezione di Testi e di Studi», pp. XX-536, € 38,00), dedicata all’italiano (e al latino e al greco) a scuola e preceduta da una sezione dantesca dedicata al colorito linguistico della Commedia, all’arte del dialogo e a due episodi di riuso dantesco: nell’italiano anche non letterario e nella poesia di fine Ottocento. Una seconda parte è di indagini sulla lingua letteraria dai primi secoli al Novecento. Consiglio a carducciani (pochi) e anticarducciani (molti) in servizio permanente effettivo (iperbole): leggere e rileggere L’antico e il nuovo nella lingua di Carducci, che vale come una delle migliori monografie (con il «tipicamente carducciano» individuato di passaggio e per esempio in una «forte sensibilità cromatica») su quel gran conoscitore di lingua e letteratura, controverso poeta e illustre prosatore, sempre ardente e sanguigno, soprattutto dove più vorrebbe controllarsi, catafratto in quella che, per l’aspetto linguistico, Serianni definisce «sostanziale stabilità» e, per l’aspetto letterario, «il sostanziale rispetto dei generi letterari», segno temporalmente connotante; mentre se la sua presenza novecentesca è assai più circoscritta rispetto a Pascoli e d’Annunzio, uno dei motivi deriva «(duole dirlo) dalla forte presenza di Carducci nella scuola italiana» fino a metà Novecento, quando veniva mandato a memoria a iosa e contraggenio (dalla parte dei banchi). Nelle pagine su Tomasi di Lampedusa colpisce una doppia osservazione sull’ostentata indifferenza dello scrittore per la tradizione letteraria italiana e il poco interesse linguistico per le frequentate a amate letterature inglese e francese: lasciando chiedersi su quali basi sia nato lo scrittore «grasso» del Gattopardo, secondo la teoria su scrittori grassi e scrittori secchi elaborata dallo stesso Tomasi. (Territorio perfetto per l’autore paiono le pagine sulla lingua ludica di Toti Scialoja).
La parte terza è un’ampia scorribanda (con nascondimento di percepibile passione) nei libretti d’opera verdiani e pucciniani assunti «come punto d’osservazione privilegiato per saggiare alcune modificazioni linguistiche e stilistiche intervenute nel secondo Ottocento» (Serianni mostra sempre l’intenzione, ma come ridotta al minimo rispetto a quello che è poi il dipanarsi dei suoi studi: anche in questa chiave va letto il capitolo dedicato alla lingua di Fedele D’Amico). La penultima sezione è sull’italiano d’uso, dove sta il paradigma dal quale si declinano le altre questioni: il capitolo che reca come titolo Ha un futuro il dizionario dell’uso?, ovvero l’obsolescenza del dizionario cartaceo in era digitale. Si tratta infatti della ricognizione su un destino che Serianni affronta dati alla mano e con saggezza, ma che sotto la limpidezza della pagina apre e lascia intravedere questioni il cui sviluppo rapidissimo è solo all’inizio e che è bene affrontare subito e volta per volta senza pregiudizio, come qui si fa.