Da alcuni giorni sono in Polonia dove ho visitato alcuni luoghi di confine con l’Ucraina, tra cui il punto di attraversamento e organizzazione della solidarietà di Medyka. Si tratta di un tentativo che sto realizzando in punta di piedi, per capire meglio quel che è e sarà il grande esodo costituito da chi fugge dalla guerra e per ragionare con esponenti della società civile e delle istituzioni su come far vivere azioni di sostegno al popolo ucraino. Faccio parte di quel drappello di parlamentari – italiani ed europei – che a tale proposito si era anche detto disponibile a varcare la frontiera per portarsi nelle città oggetto della folle guerra di Putin.

L’intervento del ministero degli Esteri ci ha fatto cambiare programma e, davvero senza voler fare una ridicola polemica, ho preferito recarmi comunque su parte del “campo”, per capire meglio come rendersi utili in uno scenario sempre più complesso e drammatico.

Vista dunque da qui, da dove scrivo, con ancora negli occhi le straordinarie esperienze di concretissimo aiuto che ho incontrato e la devastante stanchezza di questo fiume in piena, in larga parte composto da donne, bambini, anziani, mi vien da dire che si è di fronte ad alcune enormi necessità.

La prima, la più ovvia e certamente non affermo nulla di originale, è quella costituita dal bisogno di riapertura di una dinamica negoziale che, proprio al fine di favorire tregua, pace e ricostruzione veda l’Europa molto più protagonista.

In fondo chiedere, come stiamo facendo in tanti, a capi di governo e di istituzioni continentali, di rinunciare a “Versailles” ma di spostarsi a “Leopoli” per vertici e prese di posizione ha anche questo significato: auspicare un drammatico bisogno di un protagonismo politico più forte innanzitutto affinché si abbandoni la strada della guerra.

Tentando poi, a partire da possibili pertugi di fronte a noi, di rilanciare un processo di Pace su ampia e vasta scala. La seconda importante necessità è relativa proprio al confronto con l’esodo. Si è di fronte ad uno spostamento enorme di persone dentro lo spazio europeo: famiglie spezzate dall’orrore del conflitto, soggetti fragili, cittadine e cittadini che tentano di acciuffare frammenti di presente e di futuro.

Si tratta di una vicenda enorme, che lascerà a lungo conseguenze, e con cui l’Europa si deve misurare affrontando le difficoltà con lo spirito solidale sin qui messo in campo e con la volontà non solo, come tante volte viene scritto anche su il manifesto, di “non discriminare”, ma proprio di praticare un radicale cambiamento sulla gestione complessiva dell’immigrazione. Al fine di dare vita ad una nuova storia e non ad un’eccezione della (pessima) regola.

Le attenzioni straordinarie finalmente rivolte a chi scappa dalla disperazione e dall’aggressione devono e dovranno infatti ritrovarsi sempre. A tale proposito, peraltro, servirebbe quel coraggio che è mancato in passato affinché venga cancellata la gestione di “Frontex” e si dia vita ad un corpo di solidarietà europeo di carattere umanitario e civile capace di sostenere solidarietà e accoglienza nelle emergenze. Inoltre potremmo dire che l’Europa, come viene spesso ribadito, dovrebbe proprio a partire da questi mesi produrre un’accelerazione imponente per rafforzare politica comune, politica estera comune, difesa comune. Il tema è ovviamente essenziale.

E da sostenitore dell’autonomia strategica europea e della cultura del multilateralismo non posso che concordare con i tanti richiami rivolti in questa direzione. Con un particolare in più. Riterrei particolarmente dannoso e grave se si accompagnasse ad un simile balzo concettuale e politico un ingiustificato aumento della spesa militare.

In questo quadro ho ritenuto sbagliata la scelta operata dai deputati italiani di – come fatto anche altrove – perorare la corsa al “2% del PIL” come traguardo relativo agli impegni di spesa nel campo militare.

Immaginare di programmare l’aumento di diversi miliardi di euro nei prossimi anni è un contributo all’”escalation” futura che non mi sento di condividere. Dietro a quel gesto, fino ad ora tradottosi nell’adozione di un semplice ordine del giorno non c’è l’Ucraina. Tutt’altro. Perfino la scelta, che io considero dolorosamente necessaria, di fornire armi a chi resiste di fronte alla guerra di Putin non ha nulla a che vedere con lo sviluppo della nostra “spesa” futura per svariati miliardi.
E poi diciamoci la verità, quel che colpisce è come si parta maliziosamente dalla “coda”.

Invece che sciogliere i nodi profondi riguardanti il rafforzamento della politica comune, sino ad immaginare per l’appunto di condividere la strategia di Sicurezza, si parte dal fondo. Affermando, si perdoni la semplificazione “innanzitutto aumentiamo il denaro per gli armamenti”. Raccomanderei non solo più cautela ma, pure, di non farsi incantare dalle sirene dell’industria bellica che ancora una volta preme alla porta avendo in mente il proprio legittimo profitto.
Profitto, perseguito, non dimentichiamolo in tutti questi anni, vendendo armi a destra e a manca (perfino ignorando le raccomandazioni del Parlamento europeo).
All’Egitto di Al Sisi come, guarda un po’, alla Russia di Putin.
* Europarlamentare del Pd