Ivo Brandani, chimera umana metà ingegnere metà filosofo protagonista del romanzo La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, euro 16,80) di Francesco Pecoraro (finalista allo Strega), è un guazzabuglio di ossessioni. Può passare ore a sezionare con lo sguardo la carlinga di un aereo. Per lui l’iridescenza delle scaglie di un pesce o l’esoscheletro di un insetto sono sexy come un’annata di Playboy. Catalogare i modelli di scarpe intravisti in una sala d’attesa è la sua ginnastica interiore, uno sport dell’anima. E anche il profilo di una mano può dargli le traveggole. Ma se c’è un chiodo fisso che tormenta Brandani più degli altri, e che è poi la quintessenza di tutte le sue manie, è la struttura. La forma delle cose. L’intelaiatura di organi, ossa e muscoli o di pulegge e ruote dentate che consente a organismi e oggetti di esplicare il loro senso nel mondo.
È dunque inevitabile che, sulla soglia della pensione e della morte, quello con cui l’alter ego di Pecoraro contempla le proprie tappe esistenziali sia lo stesso sguardo allenato a scomporre il mondo in linee e superfici, a cogliere il senso della forma. Ma nel riavvolgere il nastro del passato la scoperta di Brandani è che la sua vita no, non ha struttura. O meglio, il tentativo di incanalarla in una griglia coerente è stato sempre frustrato. Inetto, ondivago, osservatore cronico più che eroe della propria storia, l’ingegnere si è lasciato alle spalle un’invidiabile collezione di incongruenze, gesti inconsulti, mezzi successi, inerzie. Iscritto alla facoltà di filosofia, da un giorno all’altro compie il salto a ingegneria. Sentimentale nei primi approcci con l’altro sesso, pragmatico nel matrimonio, sciupafemmine nel finale. Dopo aver fatto voto di rifiutare i compromessi del lavoro in azienda, si converte in un fanatico carrierista per poi svoltare nel vicolo cieco della disoccupazione.
Come se non bastasse, a intorbidare le acque in cui Brandani va annaspando ci si mette anche la Storia. Boom economico, Sessantotto, anni di piombo e del riflusso: il destino dell’ingegnere attraversa il sessantennio di bonaccia seguito alla burrasca bellica e lo fa con un occhio lustro di nostalgia per il tempo di guerra, quando le scelte erano nette, le ideologie illustravano il mondo e il caos umano stava nel palmo di uno schema. Così, voltandosi indietro a considerare i «se stesso» che è stato, quello che si offre agli occhi di Brandani è un paesaggio disorganico, in continuo allestimento. Uno scenario non molto dissimile da uno dei suoi cantieri e al quale ben s’intonano le parole del boss De Klerk: «Un cantiere come questo non è altro che gestione dell’imprevisto. Niente va come è stato programmato».
Ma se su qualsiasi cosa – edifici, vita, Storia – incombe il cartello «lavori in corso», se è tutto fasi da riprogrammare e ponteggi e blocchi di pietra da sgrossare, il libro che lo racconta non può essere da meno. Ed ecco perché La vita in tempo di pace non poteva imboccare altra via che quella del modernismo. Il romanzo di Pecoraro è un collage di capitoli sulle fasi chiave della vita di Brandani. La narrazione fa la spola tra presente e passato, racconto e divagazione, prima e terza persona. Un’assenza di centro narrativo a cui si adegua anche la sintassi. Una parola può accendere la miccia di una riflessione di due pagine.
Ordine e caos, irrazionalità e furore matematico sono le due opposte sponde tra cui si dibattono il mondo e la prosa di Pecoraro (e che nelle digressioni ossessive, tra le pagine più belle del libro,trovano l’asciuttezza e la grazia della sintesi). «Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi siamo, ciò che resta di un’esplosione? Anzi, no, non siamo il residuo del Big Bang, siamo il Big Bang, perché l’esplosione è ancora in atto, il Tutto sta ancora deflagrando, siamo materia esplodente abitata da qualche rarissimo episodio di aspirazione all’ordine, alla geometria».