Si potrebbe definire una nerd femminista. Un’ingegnera informatica appassionata di codici, tecnologia e diritti.

Ma Tabarak Wameedh, ventiquattro anni, ama definirsi in un altro modo: «Sono una donna forte che ha sempre voluto lavorare per le donne e supportare chi non ha voce o abbastanza coraggio per difendersi», dice da Baghdad, intervistata su Skype. «Quando sei una donna, soprattutto in Iraq, spesso non ti ascoltano e non ti prendono seriamente ma dobbiamo continuare a lottare e cercare di far crescere la cerchia di donne impegnate all’interno della società».

Irachena di Baghdad, madre sciita e padre sunnita, laureata in ingegneria del software, Tabarak lavora come responsabile del progetto Shahrazad, supportato dall’organizzazione non governativa italiana «Un Ponte Per».
Dal 2015, il progetto ha sostenuto e protetto donne, vittime di violenza e abusi domestici e attiviste irachene, che si battono per la tutela dei diritti umani. La clinica Shahrazad è diventata uno spazio sicuro in cui le donne possono rivolgersi allo sportello legale, partecipare a laboratori, attività ricreative e seminari.

«Mi dà speranza vedere l’avvocata della clinica aiutare donne in difficoltà e insegnarle i diritti», dice, con un tono allegro.
«Io per prima sono stata vittima di discriminazione. Ho sempre desiderato lavorare come ingegnera ma non ho potuto, perché qui le aziende assumono solo gli uomini».

Le donne irachene devono affrontare molti ostacoli nella loro vita lavorativa e sociale, compresa la discriminazione, l’oppressione famigliare e culturale e limitazioni della propria libertà. Dall’invasione statunitense del 2003 a oggi, le donne irachene vittime del conflitto sono state più di 100.000, secondo il database Iraqi Body Count.

Il conflitto, la violenza su base settaria e scelte politiche che hanno strumentalizzato la religione per un maggior controllo sociale, hanno causato una crescente esclusione della donna dalla vita pubblica, aggravatasi con l’instaurarsi dello Stato islamico.
Secondo Martina Pignatti, presidente di «Un Ponte Per» e membro della segreteria dell’Iraqi Civil Society Solidarity Iniative (ICSSI), ci sono due elementi da tenere in considerazione quando si parla di attivismo femminile in Iraq.

Il primo è la presenza di mentalità e costumi tribali difficili da sradicare, soprattutto nelle aree più rurali. Il secondo è il cambio generazionale: «Le generazioni delle attuali cinquantenni sono molto emancipate perché prima del 2003 la società dava loro ampio spazio nei luoghi di lavoro e di studio.
Poi, c’è una generazione di figlie cresciute sotto la guerra, costrette a rinchiudersi in casa per una questione di sicurezza o che hanno scelto di indossare il velo, come spazio di rivendicazione di una propria identità culturale. Infine, vi è la nuova generazione delle sedicenni, ventenni, molto attive e intraprendenti che si stanno spendendo contro i matrimoni precoci e le molestie sessuali».

Ne è un esempio, la campagna «Youth against harassment», (Gioventù contro le molestie), di cui anche Tabarak ha fatto parte come volontaria. Decine di giovani hanno occupato gli spazi pubblici e le strade, distribuendo volantini e cercando di sensibilizzare i cittadini iracheni sul tema delle molestie sessuali.
«Conosco molte donne molestate e io per prima lo sono stata, anche solo con gli occhi. Credo che sia un problema della società, di come un uomo sia educato e cresciuto», spiega Tabarak. Secondo l’attivista, la soluzione è l’istruzione e l’educazione alla diversità e al rispetto dell’essere umano.

«Con i social media proviamo a coinvolgere più persone sul tema dei diritti delle donne e dell’ambiente soprattutto con la campagna Save the Tigris». Tabarak, infatti, fa anche parte di una rete di attivisti di Iraq, Turchia e Iran che sta lottando per la salvaguardia del patrimonio ambientale iracheno, delle risorse acquifere, del fiume Tigri e delle Paludi Mesopotamiche, in grave pericolo, a causa di imponenti dighe – come quella di Ilisu in Turchia – che danneggerebbero l’ecosistema del Tigri. Il loro lavoro ha permesso l’inserimento delle Paludi nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 2016.
«L’Iraq dipende dal Tigri. Tagliare l’acqua significa tagliare una fonte di vita. Forse più donne e uomini dovrebbero attivarsi per problemi molto più seri come questi», conclude Tabarak.