Il tema di come si costruisca e si alimenti una mitografia del presente – ossia una raffigurazione completa, conchiusa, quindi autosufficiente dei fatti della vita, che ad essi si sovrappone fino a sostituirli, consegnando pertanto gli individui ad una condizione di falsa coscienza – attraversa la storia dell’immaginario sociale e del suo rapporto con il potere. Poiché essa risponde ad un imperativo fondamentale, che è quello di occultare la natura stessa di quest’ultimo nel suo perpetuarsi come cristallizzazione delle diseguaglianze.

LA CORNICE delle riflessioni su due libri importanti, di cui adesso diremo, non può che partire da questa premessa, poiché ciò che consideriamo come dimensione immaginifica è quanto concorre, oggi più che mai, a formulare indirizzi di giudizio e a tradurli in condotte di comportamento rispetto ai grandi eventi collettivi. Se l’immagine è l’oggetto (o l’evento) in sua assenza, tutto il Novecento è attraversato dal tema della costruzione di una iperrealtà permanente, uno stato di mobilitazione delle coscienze attraverso la loro sollecitazione sul piano delle rappresentazioni socializzate e condivise. Alcuni volumi, usciti recentemente per l’editore Meltemi, ci restituiscono la complessità di quest’ordine di riflessioni. Il primo di essi è la ricca monografia di Gabriele D’Autilia, La guerra cieca. Esperienze ottiche e cultura visuale nella Grande guerra (pp. 450, euro 28). Il secondo è l’enciclopedico lavoro collettaneo, composto da una ventina di saggi di altrettanti studiosi, per la cura di Maurizio Guerri su Le immagini delle guerre contemporanee (pp. 446, euro 28).

Il repertorio di sollecitazioni (e suggestioni) è molteplice, costituendo entrambi i libri un vero e proprio campo di incursioni non solo sul tema del conflitto bellico organizzato ma sulla questione della sua rappresentazione pubblica in termini di costruzione di traiettorie di legittimazione o delegittimazione dell’operato militare e civile. Il fuoco della riflessione, quindi, non è la realtà – a tratti inconoscibile – dell’evento bellico ma il come si riesca ad immaginarla collettivamente, trasformandola in atto di consenso e, quindi, di coesione sociale. Da un lato, quest’ordine di riflessioni rimanda alla questione del rapporto tra individuale e collettivo nelle società di massa.

Dall’altro, tuttavia, richiama anche il problema della «visione» come atto di occultamento. Un tema che, per passaggi successivi, arriva fino all’oggi, ovvero alla discussione sul fake ed il virtuale. Non senza essere transitati per quel capolavoro di Orson Welles che è L’infernale Quinlan del 1958, seguito poi dal documentario F for Fake, del 1973. Oppure le pellicole, altrimenti meno celebrate, di David Mamet, quali House of Games, del 1987, così come Homicide del 1991.

D’AUTILIA SI SOFFERMA nei sei intensi capitoli della sua opera sulla guerra (metafora della nudità delle relazioni sociali, ricondotte alla loro brutale fisicità) in quanto sia esperienza diretta sia teatro. L’esperienza individuale del combattente, come anche del testimone; il palcoscenico collettivo della raffigurazione. Coniugare le due dimensioni è ciò che costruisce un discorso egemonico, destinato a perpetuarsi ben oltre la conclusione materiale dei combattimenti. Entra in quest’ordine di considerazioni, tra le tante possibili, ciò che riguarda l’omissione del corpo vivente (nonché morente) e la sua sostituzione con la fissità dei corpi uniformi, presentati come schiere compatte di elementi deprivati di una soggettività vitale, quindi disincarnati. Non di meno, la drammaturgia della Grande guerra implica che essa sia raffigurata come affermazione dell’ordine per la propria parte e del disordine come elemento costitutivo del nemico. Questa impostazione scenica si farà, di lì a non molto, asse portante del totalitarismo, nella sua ricostruzione estetizzante dei vincoli sociali. Il tema dell’inganno diventa quindi il fuoco dell’eredità visuale della Prima guerra mondiale. D’Autilia si impegna nello svolgerlo in termini non banali, ossia non come semplice falsificazione o pura manipolazione.

POICHÉ LA GUERRA è invece il campo di una ricostruzione identitaria che passa anche e soprattutto attraverso il ricorso agli strumenti della moderna mitografia, di cui la tecnologia diventa nel Novecento una parte essenziale. In quanto essa scompone e ricompone il campo dell’esperienza trasmessa, intervenendo in essa, rimuovendo parte della radice del vissuto, in sé altrimenti insopportabile, e ricostruendola secondo coordinate indirizzate al consenso sociale.

IL TEMA PROFONDO del libro curato da Guerri, e condiviso anche nelle pagine di D’Autilia, è allora la questione della praticabilità della distinzione del vero dal falso, ovvero del tangibile dall’apparente, dell’autentico dal verosimile. Elemento che, ancora una volta, rimanda alla costruzione dei codici di consenso così come, non di meno, agli interrogativi su cosa sia oggi la capacità di esercitare un giudizio etico dinanzi al profluvio e all’inflazione di immagini, belliche e non.

Consenso ed opposizione sono infatti la posta in gioco. Sia pure con impostazioni e prospettive differenziate, i diversi saggi del volume collettaneo si interrogano sui processi di anestetizzazione della consapevolezza. Ancora una volta, non si tratta di gratuiti esercizi di denuncia di una semplice manipolazione ma di radicali interrogativi sulla conoscibilità del reale laddove questo viene ricostruito attraverso un gioco di specchi, nel quale intervengono fattori indicibili, ossia non resocontabili perché non condivisibili, come il trauma sensoriale, la visuale limitata del testimone dinanzi alla dimensione tendenzialmente illimitata degli eventi, la capacità consolatoria di una narrazione accomodante e così via.

Più in generale, il tema sotteso a tali ordini di considerazioni è la questione dell’identità dell’osservatore e del suo rapporto con l’oggettività attraverso il filtro della valorizzazione della sua spiccata soggettività. D’Autilia e Guerri, infatti, costruiscono il loro laboratorio, laddove la guerra è essenzialmente messa a nudo della brutale asimmetricità dei rapporti sociali, indagando anche sull’egotismo come matrice del giudizio di senso comune.

IL RIMANDO a Walter Benjamin è obbligato, soprattutto quand’egli denunciava l’illusorietà della relazione tra esperienza individuale e conoscenza collettiva: la prima, infatti, tanto più viene evocata come matrice convalidante della seconda, tanto meno potrà assolvere ad una tale funzione, trattandosi di due sfere separate una volta per sempre dalla tecnica. La quale, per inciso, è sempre questione di potere. Da ciò a passare al tema della lotta tra visibile ed invisibile, una dialettica che attraversa tutta la storia umana, il passo è breve.

La guerra «cieca» alla quale si richiama D’Autilia, è essenzialmente il rimando all’azione di occultamento attraverso il paradosso dell’infinita messa in scena, la spettacolarizzazione dell’evento bellico, il suo essere ricondotto a narrazione fine a se stessa.

Una cornice che depotenzia e neutralizza l’esperienza, per l’appunto, poiché la sublimazione sensazionalistica, lo «spettacolare», si sostituisce all’angoscia della sensazione individuale. E che annichilisce, per poi cancellare, la questione centrale del corpo (del proprio come di quello altrui), che come tale è presa di petto in molti saggi del volume curato da Guerri: corpi esibiti, corpi rimossi, corpi scarnificati dal terrorismo o corpi reificati dal combattimento tecnologico. In tutti i casi, l’elemento comune è la caduta del pudore, laddove questo è essenzialmente senso del limite attraverso il rispetto della sfera privata.

Il totalitarismo dello spettacolo permanente è anche incarnato da quest’opera, tanto ossessivamente pervasiva quanto impercettibile, di costante invasione della sfera morale da parte di una «realtà» che non vuole farsi indagare ma solo consumare come merce, in quanto unica perennità possibile.