L’edizione inglese di Elle ha lanciato una campagna in forma di domanda: la parola femminismo ha bisogno di un rebranding? Secondo il mensile femminile la provocazione era necessaria perché oggi il concetto di femminismo, tornato prepotentemente di moda sia nei messaggi degli stilisti sia nelle collezioni di abiti, esclude le generazioni più giovani che, dice «lo vivono come un concetto astratto non avendo mai letto i libri né sentito parlare di Germaine Greer o Marilyn French».

Figuriamoci, aggiungerei, di Simone de Beauvoir o di Betty Friedan. Il dibattito ha suscitato un vespaio che ha prodotto 135 milioni di messaggi su Twitter in cui si vede chiaramente la netta spaccatura tra chi appoggia la necessità di un rebranding, termine infelice di per sé che sta per «cambiamento di marchio» riferito a un concetto politico, e chi invece sostiene che non c’è necessità di dare al significato una parola diversa, ma di politiche sociali, economiche e sostanziali che realizzino finalmente la parità dei sessi.

Motivo di tanto dibattito è che da alcuni anni la parola femminismo si affaccia sempre più prepotentemente nella moda, spinta da un folto gruppo di fashion designer donne. Che la moda dovesse trasformarsi in una sorta di mezzo per l’affermazione del femminismo l’aveva già annunciato la stilista inglese Katharine Hammnett negli Anni 80 del 1900, quando stampava slogan femministi là dove altri piazzavano le stampe a fiori. In anni più rivoluzionari Yves Saint Laurent usava il tailleur maschile (pantaloni e non più gonna) e nude look (in sintonia con i roghi dei reggiseni) per sottolineare il cambiamento sociale richiesto e ottenuto dalle donne del movimento del Sessantotto.

Ma la moda è essenzialmente immagine, vive di mercato ed è sostanzialmente retta dalle logiche maschili difese da una classe dirigente molto al confine con gli Alpha Male. E basta contare quante donne siedono ai veri posti di comando nelle aziende del settore. In ogni caso, da Miuccia Prada a Phoebe Philo per Céline, il tema del femminismo nelle collezioni di moda è molto insistito ma il rischio, come dimostra l’iniziativa di Elle Uk, è che tutto si trasformi in un ennesimo inganno pubblicitario e di marketing. Scrive la giornalista inglese Laurie Penny: «L’idea della liberazione delle donne viene usata da tempo per venderci di tutto, dai profumi ai vibratori». E racconta che per incrementare le vendite di sigarette il pubblicitario dell’American Tobacco Company, Edward Bernays, diffuse la voce che alla marcia di Pasqua del 1929 un gruppo di femministe avrebbe acceso «le torce della libertà».

Bernays ingaggiò delle modelle che, al suo cenno, si inserirono nel corteo e accesero le sigarette: i fotografi pagati per l’occasione scattarono le foto e la sigaretta diventò un simbolo della liberazione: in dieci anni le donne fumatrici passarono dal 5 al 18 per cento. Oggi, la moda è più scaltra e attenta e proprio per questo chi la racconta dovrebbe essere più attento alle trappole.

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