La crescita dell’inflazione si rafforza, sfondando quota 6% negli Usa e toccando quota 5% in Europa. Il dibattito sulle cause è acceso e, mentre fino a qualche giorno fa il grosso dei commentatori e dei player finanziari affermava con nettezza la dimensione temporanea della fiammata dei prezzi, oggi emerge un quadro decisamente più eterogeneo. Se Ursula von der Leyen ribadisce la tesi di una inflazione da rimbalzo, prodotto di un picco da domanda effetto dell’elastico temporale del Covid, in diversi sottolineano elementi analitici differenti. Prodi ha evidenziato come una componente importante della crescita dei prezzi sia determinata da difficoltà di offerta non solo momentanee.

La riorganizzazione produttiva prodotta dall’emergenza Covid non è semplicemente emergenziale, ma impatta su scelte strutturali d’investimenti e allocazione, determinando strettoie e colli di bottiglia non banali da superare. A questo si somma indubbiamente il problema energetico, che richiama conflitti e strategie geopolitiche, ma anche la crisi strutturale di un modello produttivo fondato sul carbon fossile e difficilmente espandibile. A fine novembre il Sole 24 ore titolava che i prezzi delle materie prime erano «fuori controllo». Gli Usa hanno fatto straordinariamente ricorso alle loro riserve strategiche di petrolio e forse anche per questo il presidente della Fed Powell ha recentemente dichiarato che l’aggettivo «transitoria», riferito all’inflazione, andrebbe ritirato.

Subentra poi una componente psicologica: la corsa a cercare «riserve» di merci che scarseggiano. Accade che si compra semplicemente in previsione di un aumento del prezzo della merce acquistata. In qualche modo tornano persino utili riserve di magazzino. Comprare ora appare di per sé un buon investimento. Tutto ciò determina una spirale inflazionistica che si autoalimenta.

Non solo. La finanza non sta a guardare, sposta parte dei suoi flussi da prodotti a tassi reali negativi, proprio in direzione di quegli asset il cui corso è spinto dall’inflazione, contribuendo a una ulteriore rincorsa dei prezzi. Molti commentatori si dicono fiduciosi nell’intervento delle banche centrali, cioè in una normalizzazione delle politiche monetarie ultraespansive. La strada non sembra così semplice.

Il rischio è quello di non fare i conti con una crescita estremamente fragile supportata ormai dall’iniezione di massa monetaria crescente da oltre un decennio. Andare nella direzione inversa potrebbe compromettere la ripresa e di conseguenza generare nuovamente instabilità su debiti pubblici e privati ormai cresciuti all’inverosimile. È proprio l’enorme quantità di debito pubblico coniugato a massicce dosi di moneta che ci spingeva già a metà del 2020, in pieno contesto pandemico, sulle pagine della rivista Jacobin Italia, a ipotizzare uno scenario ad alta inflazione. L’inflazione è una delle strade per contenere il debito pubblico, senza assumersi la responsabilità di scelte fiscali da parte di esecutivi deboli.

La crescita dei prezzi alza il Pil nominale, svalorizza i debiti pregressi, genera, almeno in una prima fase, tassi reali fortemente negativi. Un’opzione che, almeno inizialmente, tende a colpire patrimoni monetari e rentiers che vivono di rendita finanziaria. Il rovescio della medaglia, però, consiste nel creare una sorta di tassa occulta per i milioni di individui che vivono esclusivamente del proprio reddito, in particolare se non vi fosse una ripresa del conflitto sociale e sindacale per fronteggiare l’aumentare del costo della vita.

Quest’ultimo aspetto oltre che conferire potenzialmente nuovo potere politico al lavoro (le isterie attorno allo sciopero di Cgil e Uil sono in pieno corso) potrebbe contribuire, alla lunga, ad alimentare la spirale inflazionistica stessa. Complessivamente un bel dilemma per le classi dirigenti. La forza lavoro meglio che si attrezzi, perché la sensazione è che non sarà una tendenza di breve periodo.