L’immancabile polemica politica intorno al focolaio italiano assume tratti surreali. Da un lato, il governo ricorda in ogni occasione di essere stato il primo (e l’unico) in Europa ad aver chiuso i voli alla Cina.

Dall’altro, la destra ripete che si sarebbe potuto fare di più per schermare l’Italia. La dinamica dei focolai lodigiani e veneti scoperti con notevole ritardo, invece, dimostra che se una falla c’è stata ha riguardato la cosiddetta preparedness, la capacità di risposta da parte della prima linea del sistema sanitario.
Ma difficilmente vedremo una gara per aumentare le risorse per un sistema sanitario tra i meno cari (leggi: sottofinanziati) d’Europa. Tra l’invecchiamento della popolazione e le storiche carenze di organico, il sistema si mantiene tra i migliori al mondo grazie ai quotidiani eroismi di medici e infermieri, che però sono esposti più che altrove ai rischi del mestiere. Tra coloro che già in tempi non sospetti ha denunciato carenze e iniquità crescenti della nostra sanità c’è l’infettivologo Pierluigi Lopalco, docente di Igiene e medicina preventiva all’università di Pisa.

Il ritardo con cui si è rilevato il focolaio lodigiano è un misto di errori e anche di sfortuna, spiega Lopalco. «I medici nei pronti soccorsi erano allertati sul fatto che eventuali sospetti di coronavirus dovevano avere un legame con la Cina, e inizialmente il “paziente 1” di Codogno li aveva negati. Solo dopo una seconda visita al pronto soccorso, con sintomi già gravi, è emerso un possibile legame con un ‘paziente zero’ rientrato dalla Cina. Poi si è rivelata una informazione falsa, ma quell’errore ha fatto partire le indagini che hanno scoperto il focolaio di Codogno».

Non c’è stato anche un errore di preparazione?
C’è un problema di fondo: il controllo infettivo negli ospedali italiani è preso alla leggera. Siamo tra i primi paesi d’Europa per infezioni ospedaliere e i primi per alcuni germi patogeni. Manca una cultura del controllo delle infezioni. In ospedali in cui il controllo è scarso, quando arriva un virus del genere hai un problema.

Tra i primi contagiati ci sono stati molti medici. Fa supporre che la preparedness del nostro sistema sanitario non sia così elevata. È così?
Non c’è un problema di preparedness: c’è un’assenza di preparedness. Tra epidemiologi abbiamo iniziato da subito a parlare di un virus potenzialmente pandemico. Siamo forse passati per menagramo, ma segnalavano la necessità di prepararsi alla pandemia. Non perché la pandemia fosse certa. Ma preparedness significa prepararsi al peggior scenario possibile. Gli ospedali si stanno attivando ora. Le nostre punte di diamante, come il Sacco e lo Spallanzani non hanno questo problema. Ma gli ospedali di provincia sì.

Oggi l’Italia è il paese al mondo con più casi dopo Cina e Corea del Sud. Anche un paese vicino, come la Germania, ha avuto un focolaio con trasmissione locale, ma è stato rapidamente circoscritto. Si proteggono meglio di noi?
Alcuni Paesi, come gli Usa, adesso fanno il test su tutti i malati che risultano negativi all’influenza stagionale. I Paesi europei no. Tuttavia, a me sembra strano che nel nordest italiano ci siano tanti casi e in Germania no. Si tratta di aree analoghe per demografia, attività industriale e contatti con la Cina. È probabile che anche lì si presenti presto una situazione simile alla nostra.