In un angolo di Ponte Mammolo, quartiere a est di Roma, vicino al carcere di Rebibbia, cresce una baraccopoli con centinaia di rifugiati, in maggioranza eritrei e somali. Sulla loro pelle hanno conosciuto l’«accoglienza» che l’Italia riserva ai rifugiati politici. Senza un tetto, un reddito, cittadini dimezzati, perché non possono lavorare, studiare, ricominciare una vita interrotta molto lontano. Il 12 ottobre in quattrocento hanno occupato il palazzo della Marina geografica in piazza Indipendenza, a pochi metri dalla stazione Termini. Sotto questo edificio immenso, che richiama nei fregi lo stile di Nervi, il corteo di sabato scorso, quello della «sollevazione generale» contro l’austerità, si è fermato mezz’ora, festeggiando con fumogeni e musica i rifugiati abbarbicati sul tetto. Da 72 ore alcuni di loro si sono trasferiti al presidio di Porta Pia, frutto dell’«acampada» del fine settimana e dell’assemblea dei movimenti che si è tenuta domenica mattina. Hanno dormito in una delle trenta tende di fronte al bersagliere della breccia, bloccando la circolazione della via Nomentana. Da ieri si sono spostati nel parcheggio del ministero delle Infrastrutture. Insieme a trecento persone, molti gli italiani e i peruviani che vivono nelle occupazioni delle case a Roma, restano in attesa dell’esito dell’incontro con il ministro Lupi, con il sindaco di Roma Ignazio Marino e il vice sindaco Luigi Nieri dove i movimenti per l’abitare chiederanno, tra l’altro, il blocco degli sfratti per morosità in tutto il paese. In coincidenza con questo incontro ci saranno presidi e mobilitazioni in tutta Italia.

Sammy ha 41 anni. È nato in Eritrea. Vive con la sua compagna e due figlie nell’occupazione di piazza Indipendenza. È in Italia da 14 anni dove ha studiato e lavorato. Ha provato ad andare in Svezia e poi in Spagna, ma è stato respinto e rimandato in Italia. «Qui in Italia noi rifugiati veniamo accolti in maniera truffaldina. Ci prendono le impronte, ma non puoi lasciare il territorio. Chi va in Europa, alla ricerca di un lavoro, di una vita dignitosa, viene rimandato in Italia, nel paese di ingresso. Questa è la legge di Dublino, alloggio, asilo, studio e casa ci sono negate». Da otto anni Sammy fa parte dei movimenti per il diritto all’abitare a Roma. Per lui ogni anfratto della città è una storia. Il suo racconto rivela una topografia sconosciuta a chi la vive, ma che è sotto gli occhi di tutti. «Lo sai che di fronte al Colosseo c’è una baraccopoli? Guarda bene quando ci passi, basta andare a Colle Oppio (il parco che sorge accanto al monumento, ndr), le baracche sono fatte di cartone. I rifugiati sono finiti lì perché vicino c’è la Caritas. Quello che è stato costruito, in assenza di leggi, è un sistema assistenzialistico e dannoso. Noi chiediamo diritti e ci viene dato un piatto di pasta».

A Castel Nuovo di Porto, a 30 chilometri da Roma, c’è un Centro accoglienza richiedenti asilo. Ai rifugiati eritrei e somali vengono offerti tra i 250 e i 500 euro per lasciarlo. Disperse, sradicate, queste persone arrivano a Roma e possono finire in una palazzina nella zona di Anagnina, a sud della Capitale. Oppure sulla Collatina. «In teoria sarebbero gestite dal comune – aggiunge Sammy – in realtà sono abbandonate a se stesse. In una camera si dorme anche in dieci, quando manca l’acqua, ci si arrangia e si ripara tutto da soli. Si va avanti con la solidarietà che si crea tra disperati». La capienza di questo inferno urbano è di 200 persone. Le persone che ci vivono sono invece mille. «Come rifugiati politici c’entriamo poco con il ministro Lupi – continua Sammy – ma lui è competente sullo stabile che abbiamo occupato in piazza Indipendenza. Chiediamo che venga legalizzato in quanto abitazione provvisoria e che il governo dia finalmente una risposta a tutti i rifugiati, creando tra l’altro percorsi di inserimento sociale lavorativo scolastico e sanitario». Questo presidio della città sommersa resterà ancora a lungo. «La gente è molto fredda, stanno sul chi va là, vedendoci arrivare in 400, tutti neri, non l’hanno digerita – dice Sammy – Siamo in un triangolo delle bermude tra il Sole 24 ore e il Csm. In realtà, non ci aspettavamo nessuna accoglienza. Siamo arrivati in un punto nevralgico della città, dovevamo attirare l’attenzione, l’abbiamo fatto».