Visioni

L’inferno quotidiano degli schiavi moderni fra Beirut e la Russia post-sovietica

L’inferno quotidiano degli schiavi moderni fra Beirut e la Russia post-sovietica

Cannes 71 In concorso «Capharnaüm» di Nadine Labaki e «Ayka» si Sergey Dvortsevoy

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 maggio 2018

Capharnaüm inizia come un film del neorealismo, più i bassifondi di Chahine ma senza la sua poesia strabica, che i Ladri di biciclette (qui presentato restaurato): un bimbo ammanettato, un gruppo di donne migranti, africane, indiane, dietro alle sbarre. Il piccolo arriva in un’aula di tribunale, ha fatto causa ai genitori per averlo messo al mondo e costretto a vivere, nella manciata di anni che ha, subendo ogni violenza. La strada è la sua casa sin da quando è piccolissimo, niente scuola, solo lavoro insieme alle sorelle, la più grande e prediletta, che cerca di proteggere, venduta a undici anni al vicino adulto in sposa.

Siamo nei quartieri poveri di Beirut, il Libano narrato in ogni film di Nadine Labaki – che si ritaglia il ruolo dell’avvocatessa salvifica – tra i ragazzini di strada come Zian, un piccolo Marlon Brando (realmente un rifugiato siriano): figli dei «clandestini», merce di scambio degli adulti come in un Pollicino contemporaneo. Labaki mette la macchina alla loro altezza, li segue nell’inferno quotidiano, in questa lotta impari di sopravvivenza.
Zain fugge di casa e viene accolto da una giovane donna immigrata etiope senza documenti costretta a nascondere il suo bimbetto.

A differenza dei suoi genitori lei lo cura con amore, portandolo a lavoro, sfruttata e costretta a pagare per una baracca di lamiere mentre uno dei tanti mercanti di esseri umani, le chiede di venderlo il piccolino per pagarsi un falso passaporto.
Poi la donna sparisce, Zian si prende cura del bambino, il film diventa quasi un melò, ma la regista alla grande tradizione del cinema egiziano predilige il cinismo consensuale delle «coproduzioni» e la consensualità della lacrima con «happy end» – il film è stato il più venduto al mercato. Dopo averci detto di una società orribile, facendo vivere ai suoi poveri piccoli «eroi» qualsiasi sopruso (pure sadicamente), ecco che all’improvviso scopriamo invece che tutto funziona benissimo: giustizia, polizia, istituzioni un quadretto idilliaco – che viene da pensare composto in funzione della censura – con promesse di felicità e un fastidioso sentimento (in noi spettatori) di sfruttamento della miseria. Si dice che sarà la Palma d’oro.

Migranti e povertà anche in Ayka (concorso), esordio nel lungometraggio di Sergey Dvortsevoy, kazako, autore di documentari e premiato al Certain Regard con Tulipan, che nel passaggio al «cinema narrativo» sembra perdere però in precisione dello sguardo.
Molta «scuola» dardenniana, con la macchina da presa incollata alla protagonista, una ragazza clandestina kirghiza, la Ayka del titolo, sin dall’inizio, quando fugge dall’ospedale subito dopo avere partorito per massacrarsi in un lavoro non pagato.

Abissi sociali della Russia post-sovietica, in una Mosca sotto la neve dove gli abitanti delle ex-repubbliche sono manodopera senza diritto, schiavi come i migranti ovunque nel mondo. Dvortsevoy accumula ogni possibile disgrazia, un catalogo estenuante – che vuole illuminare la condizione degli esseri umani nel contemporaneo: dolore, paura, sporcizia, umiliazione. Un tour de force di degrado a cui sottopone la sua protagonista che lascia fuori campo le responsabilità affidando tutto al trauma (catartico) del dolore. Come quando si guarda l’attualità alla tv

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