Gli alieni di Pacific Rim non arrivano dal cielo ma dal centro delle terra e non hanno nulla a che vedere con ET. Orribili, enormi creature – tra il dinosauro, il drago medioevale e la mutazione più impensabile- emergono dal mare e portano incredibile distruzione sul nostro pianeta. Per anni, le periodiche apparizioni di questi Kaiju sono state arginate grazie ad un esercito di Jaeger, giganti metallici e accessoriati di ogni tipo di arma, pilotati al loro interno da una coppia di umani, in comunicazione mentale uno con l’altro. Più è perfetta la sintonia delle menti, e quindi la coordinazione dei comandi della macchina, più lo Jaeger è valoroso e ha chance di ammazzare il Kaju di turno.

Questa la premessa dell’ultimo, colossale, film di Guillermo Del Toro, il primo dopo che il regista messicano ha abbandonato The Hobbit e sicuramente, ad ora, il progetto più ambizioso della sua carriera. Sci-fi tecnologica e giganti di metallo non sono mai sembrati grandi punti d’interesse dell’autore di Pan’s Labyrinth e Hellboy ma con Pacific Rim, Del Toro porta nel mondo di Godzilla e di Michael Bay tutta la forze pittorico/poetica del suo cinema. Magnificamente fotografato da Guillermo Navarro (Oscar per Pan’s, fedelissimo anche qui alla sua passione per le molteplici texture del buio) il film si pone subito per qualità visiva e senso delle scala a livello di Cameron. L’action adventure ad alto budget continua ad essere l’ingrediente principale dell’estate cinema. Il problema è che pochissimi registi sono all’altezza del genere dal punto di vista formale. Insieme a Cameron, Bay e pochi altri, Del Toro fa parte di quel giro ristretto. Rispetto a Bay e anche a Cameron, il suo immaginario ha una qualità più organica, un legame indissolubile con il gotico ed è a questi due poli che è ancorato anche il suo ultimo film.

Quando la storia inizia, gli attacchi dei Kaiju si stanno facendo mano a mano più frequenti e più distruttivi. Convinti che i Jeager non siano più all’altezza del loro compito, un pool di leader internazionali, decide di chiudere il programma e ridirigere i fondi verso la costruzione di giganti muraglie protettive (magari Del Toro non pensava nemmeno all’inutile muro tra Stati uniti e Messico, ma l’associazione mentale è inevitabile….).

Sotto la leadership di Stacker Pentecost (Idris Elba), il programma degli Jeager viene quindi relegato a Hong Kong con sei mesi di tempo per auto-smantellarsi. Ma, sull’isola popolatissima e reimmaginata in stile pop fatiscente molto Blade Runner– Pentecost e i suoi piloti hanno in mente tutt’altro, una vera e propria resistenza. In un’enorma rimessa, i vecchi, giganteschi, ammaccati guerrieri di metallo vengono poco alla volta rimessi in sesto. Hanno colori, look e specialità diverse in battaglia – a seconda di chi li pilota e da dove vengono (Germania, Australia, Russia e America). Del Toro (con lo sguardo meravigliato, infantile, di sempre) li riprende con amore anche quando giacciono immobili, inanimati. Ma e chiaro che gli preme l’idea un po’ frankesteniana – sua e del cosceneggiatore Travis Beachman- che per animarli e dar loro forza ci vogliano carne, ossa, e soprattutto un cuore.

Anche i piloti degli Jeager hanno l’aria ammaccata di sopravvissuti a molte guerre, o di vecchie rock star. Il team australiano è fatto di un padre ruvido ed esperto e di un figlio coraggioso ma troppo superbo. Lo Jaeger Usa, che di nome fa Gipsy, è invece affidato alla sintonia elettrica tra un ex pilota (Charlie Hunnam) che porta ancora nel suo cervello gli ultimi pensieri di suo fratello mentre un Kaiju lo stava facendo a pezzi e una ragazza giapponese (Rinko Kikuchi, da Babel) che da piccolissima ha visto i suoi macellati da un mostro. Ci sono trauma e solitudine – due componenti chiave delle ossessioni di Del Toro- alla base della loro intesa, ma anche della loro forza.

L’idea di queste coppie di menti/corpi sincronizzati dentro alle viscere dei robot è molto bella e Del Toro –invece di puntare sull’immagine da manga- dà a quell’idea un tocco e un look old fashioned, alla Tron. Come logico, il film –occasionalmente infastidito da un paio di scienziati che fanno da comic relief e introducono una trama extra forse nemmeno necessaria- si snoda verso la grande battaglia finale. Di notte, tra cielo e acqua, contro creature sempre più grosse e numerose. Coreografati con grande inventiva e scelte di composizione che fanno venire in mente dei quadri, i corpo a corpo tra Kaiju e Jeager sbordano dalle schermo in sala, grazie al 3D usato, una volta tanto, benissimo. Enorme, visionario, ambizioso, bello da vedere e personalissimo, Pacific Rim è tutto quello che un grosso film hollywoodiano