Chi non ha mai immaginato La Divina Commedia scritta o recitata in uno dei tanti dialetti italiani? Quella che può sembrare una fantasiosa divagazione intellettuale è diventata realtà grazie all’interessante iniziativa editoriale di Vincenzo D’Amico che dal piccolo villaggio globale di Nocera Superiore dove vive e gestisce l’omonima casa editrice, ha lanciato un segnale di originalità e di scoperta di un aspetto dantesco poco conosciuto nell’overdose di celebrazioni per i 700 anni dalla morte del Poeta con eventi e omaggi molti dei quali scontati e prevedibili (dobbiamo aspettarci anche un Dante pop, rock, cyberpunk, virtuale).

E fa un certo effetto leggere o eventualmente ascoltare L’ Inferno di Dante in dialetto napoletano tanto più che si tratta di una lingua dell’Ottocento classica e pura quindi senza le successive alterazioni e distorsioni. L’autore del volume Lo ’Nfierno. L’Inferno di Dante in lingua napoletana (D’Amico Editore, pp. 207, euro 14), curato dallo stesso D’Amico per la collana «Le onde del Sebeto», è Domenico Jaccarino, professore, giornalista, poeta e saggista, nato nel 1840 a Napoli, dove morì nel 1894 . Tra i tanti letterati protagonisti della vita culturale della Napoli del XIX secolo, merita senz’altro un posto di rilievo. Sicuramente è opera meritoria quella di D’Amico che ha strappato all’oblio questa stravagante rilettura dialettale ristampando l’edizione originale e unica intitolata Il Dante popolare o la Divina Commedia in dialetto napolitano pubblicata a Napoli nel 1870 e ricostruendo con un certosino lavoro filologico su materiali rari, giornali e riviste d’epoca e libri anche di anni successivi (come è documentato nella sua introduzione) la genesi dell’operazione e il poliedrico percorso intellettuale di Jaccarino.

Che già giovanissimo si fece notare per le sue poesie dialettali. Ma il vero esordio nel mondo giornalistico e letterario avvenne quando fondò il Bazar Letterario. Nel 1860 accolse con entusiasmo la spedizione garibaldina e si segnalò come uno dei principali animatori dei diversi fogli che si stamparono tra il 1861 e il 1875, si occupò anche di politica e la sua produzione letteraria e poetica fu vicina alle istanze della Sinistra democratica e in particolare a Giuseppe Garibaldi, compose anche numerose commedie e drammi rappresentati nei teatri popolari della città. Legò però il suo nome soprattutto alla Divina Commedia della quale diventò il più autorevole traduttore in napoletano. All’inizio dalle colonne del Bazar ai cui lettori offrì la traduzione dei primi quattro canti dell’Inferno che poi riuscì a pubblicare integralmente, poi tradusse a puntate sul Giambattista Vico» gran parte del Purgatorio. Oltre ad essere il più autorevole traduttore della Divina Commedia in napoletano, Jaccarino fu naturalmente un grande estimatore dell’Alighieri. Infatti l’8 agosto 1867 ricevette l’autorizzazione dal ministro Coppino per fondare la Scuola popolare dantesca napolitana allo «scopo di istruire ed educare le masse popolari infime della città di Napoli mediante la lingua che esse parlano ed intendono».

Basta una lettura anche solo superficiale delle opere in dialetto di Jaccarino per capire che nell’ambito della polemica linguistica ottocentesca tra i promotori di una riforma ortografica del napoletano basata sul lessico contemporaneo e i difensori della norma grafica derivata dai classici della tradizione dialettale scritta, Jaccarino si schierò con quest’ultimi. E tra i passaggi più incisivi e semplificativi di questa posizione ci sono quello che Jaccarino dice a proposito della visione politica del Sommo poeta attualizzata: «Li Guerfe e li Ghibbelini erano duie partite de lo popolo de Sciorenza. Li Guerfe jevano appriesso a lo Papa, a li Muonace e li Prievete. Li Ghibbelini se mettettero dalla parte de lo governo de la reprubbeca. Nzomma li Guerfe erano riazzionarie, e li Ghibbelini erano libberale, e lo stesso Dante fuje isso stesso Ghibbelino, e pecchesto fuje asiliato».

Oppure «Lo Nfierno de Dante non è autro che lo ritratto de lo Nfierno de chisto munno quanno l’abbitante suoie vanno contro a le llegge de lo Stato, accideno, arrobbano, scannano, tradisceno, e chisto è Nfierno; lo Priatorio è lo ritratto de na Monarchia saggia; lo Paraviso è lo ritratto de na Monarchia iusta, pecchè è veramente Monarchia Cattoleca». O l’incipit del primo canto: « A meza strata de la vita mia Io mme trovai ntra na boscaglia scura, Ch’avea sperduta la deritta via. Ah! quanto a dì comm’era è cosa addura Sta voscaglia sarvaggia, e aspra, e forte, Che mme torna a la mente la paura! È tanto amara che pò dirse morte; Ma lo bene pe dì che nce trovaje, Dirraggio cose che non songo storte. Non saccio manco dì comme passaje, Tanto comm’a stonato m’addormette, Quanno la vera strata io llà lassaje».

Oltre ai 34 canti dell’Inferno tradotti, il volume si arricchisce di un prezioso glossario e di un’appendice iconografica con una decina di ristampe anastatiche dello stesso Jaccarino, della rivista letteraria Giambattista Vico, della copertina di una delle edizioni de Il Dante popolare, di varie medaglie. Insomma quest’operazione va al di là della traduzione dialettale di Dante, va oltre lo stravagante attrito tra la «musicalità» aulica dantesca e la «musicalità» popolare di Jaccarino. Perché durante la lettura (o l’ascolto) ci si dimentica quasi dell’oggetto della (ri)scrittura per ritagliarsi idealmente una koinè linguistica che rimanda alle riflessioni pasoliniane sul dialetto come lingua e quello napoletano, come si sa, era sotto quest’aspetto uno dei suoi preferiti. Il napoletano di 150 anni fa che si legge nel volume è quello ormai sconosciuto alla maggior parte dei napoletani, è una lingua appunto che magari per alcuni oggi risuona come un’insieme di espressioni, cadenze, gerghi della provincia visto che imperversa da anni un dialetto involgarito, enfatico, fastidioso, gomorresco.