In un libro di letture per le classi terze dei centri rurali dall’emblematico titolo L’aratro e la spada del 1940 si trova questa poesia: «Dieci mesi: quattro denti / fermi nitidi lucenti; / quattro punte da cacciare / già nel pan che mamma affetta; / quattro spade da mostrare / al nemico che ti aspetta».
In pochi versi si addensa un’intera filosofia di vita «completamente immersa nella lotta per l’esistenza contro i nemici che sono sempre in agguato minacciosi»: così, in Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (ombre corte, pp. 128, euro 13) commenta Gianluca Gabrielli, già autore di importanti studi sull’educazione scolastica fascista. Il tema dei denti come arma è, del resto, rilevante: dalle letture reazionarie del darwinismo che vedevano nella dentizione il segno di quell’animalità irrazionale che mostra il retaggio della bestia si passa alle dottrine fasciste (si pensi a Gehlen), che vedono nelle istituzioni il solo freno possibile all’ingovernabilità degli istinti.

GABRIELLI HA IL MERITO di mostrare come il programma fascista di «vigilare il destino della razza, curare la razza a cominciare dalla maternità e dall’infanzia» (Mussolini) si sia concretizzato in peculiari dispositivi disciplinari che iscrivono razzismo e nazionalismo entro un bio-potere che prendeva in gestione l’intera popolazione sin dalla prima infanzia, assicurando non solo la disciplina, ma soprattutto la regolazione della vita. Ma anche, che il fascismo si è servito di immagini, discorsi, propagande che prendono le mosse con la guerra di Libia e la Grande Guerra: in questo modo, attraverso la designazione dell’altro come nemico connotato in senso razziale, si è assicurata, per dirla con Foucault, «la funzione della morte nell’economia del bio-potere in base al principio che la morte degli altri equivale al rafforzamento di sé stessi in quanto razza o popolazione». Aver richiamato l’attenzione sull’ordine del discorso razzistico della Grande Guerra rimosso – meglio: forcluso – dall’identità italiana è uno dei molti meriti di questo volume.

DALLE COPERTINE di quaderni e diari alle esercitazioni paramilitari nelle scuole, dalla quotidianizzazione di oggetti come le maschere antigas e le bombe a mano, di giochi di guerra e di decaloghi differenziati per genere – il balilla deve sapere che «la Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina», laddove la piccola italiana impara che «la patria si serve anche spazzando la propria casa» – si concretizzano la «democratizzazione» (Hobsbawn) e la «banalizzazione» (Mosse) della guerra: la guerra e la morte sono presenze costanti, dunque «banali», nella tempo dell’infanzia.

Ancor più che l’intuibile militarizzazione del gioco e delle attività sportive, è nei piccoli oggetti quotidiani che si mostra la pervasività del disciplinamento. Esemplare è il caso dei ricostituenti per l’infanzia (il celebre Ovomaltina), che in principio costituiscono «una specie di risposta riflessa della borghesia verso i propri figli», messi in pericolo dal contatto con le classi sociali più povere; in seguito le loro réclame machiste in stile futurista mostrano che l’infanzia è divenuta oggetto di interesse per lo Stato, e che il disciplinamento investe anche l’estetica del corpo: un sussidiario per la quinta classe sottolinea, infatti, che «la bella forma del nostro corpo è data dunque dai muscoli e un atleta si distingue dalla forte muscolatura. Il corpo del poltrone è invece floscio, molle, brutto a vedersi», e conclude, rivolgendosi al balilla: «Tu come diventerai?».

Questo pregevole studio ci mostra, insomma, che il fascismo non è solo un regime storicamente determinato con un inizio e una fine: è un ordine del discorso che non cessa con la caduta del Regime. E dunque, la lotta contro il fascismo è lotta contro il suo ordine del discorso: questo significa valorizzare quelle lotte svalutate come «lotte per i diritti» che invece individuano nel rovesciamento dell’ordine simbolico maschile, eterosessuale, bianco, occidentale il loro punto di attacco.

D’ALTRO CANTO, non va dimenticato che lo stesso socialismo ottocentesco (ma anche staliniano) non è stato immune da derive razzistiche: lo è stato solo quando ha posto il principio della trasformazione delle condizioni economiche come principio di trasformazione dello Stato (si veda l’ultima lezione del corso di Foucault Bisogna difendere la società).
Se al livello dei processi economici si sostituisce il discorso populistico, alla lotta di classe il «popolo che s’è rotto i coglioni» e la politica del vaffa, il razzismo riemerge. E libri come questo diventano ancora più urgenti e attuali.