L’ospitalità è una virtù o un’istituzione? Oggi, come accadeva nei vecchi circoli dei combattenti, in certe sue declinazioni retoriche, questa ospitalità sembra poco più che un’associazione per il reinserimento dei mutilati all’interno di quelle stesse società che ha contribuito a mutilarli e presumibilmente continuerà a farlo. Ma l’ospitalità – scriveva René Schérer, in un suo libro chiave del 1983: Zeus hospitalier – è tutt’altro. È una «virtù interstiziale». Vaga tra le soglie del mondo attuale, inquietandole, non disciplinandole, come un tempo la follia di Erasmo inquietava tutte le «buone ragioni», a partire dalla più «buona» di tutte, la raison d’État.
Attorno a queste buone ragioni, però, anche in nome e per conto di un’ospitalità di facciata, spesso mascherata da universalismo, ancora si organizza quello che lo stesso Schérer chiamava «il vizio pedagogico», ossia un apparato di cattura e di depotenziamento dell’altro e, inevitabilmente, del suo corpo. Nel suo Ferdyduke, che sui temi della formazione e della deformazione dell’altro scava a fondo, Witold Gombrovicz scriveva: «Qui non troverete un solo corpo piacevole. Qui ci sono soltanto dei corpi pedagogici».

Emile sottosopra
La dissociazione tra corpo e desiderio e il conseguente addomesticamento di entrambi è da sempre al centro della costituzione di questi «corpi pedagogici». Rovesciando la questione su vizi e virtù, c’è da chiedersi quale sia, oggi, il vizio da estirpare o, meglio, se il vizio da estirpare dal corpo non sia proprio la pedagogia che lo irradia, dalla culla alla tomba. «Il vizio pedagogico va estirpato», scriveva senza aver dubbi Schérer, fratello di Eric Rohmer, nato nel 1922 e oggi emerito all’Università di Parigi VII. Lo scriveva in un libro un tempo ben noto, apparso nel 1974, ma da almeno tre decenni sparito dall’orizzonte culturale e editoriale italiano: Émile perverti ou des Rapports entre l’éducation et la sexualité. Davanti a volumi del genere, c’è sempre da chiedersi se siano frutti maturi, troppo maturi per l’epoca che li ha visti nascere, se siano l’appendice di quell’epoca o se, al contrario, sotto la polvere, si assumano l’onere di continuare carsicamente a perturbare il nostro orizzonte, magari incidendo – per chi li voglia ancora leggere – proprio su quelle nozioni chiave che un mondo in declino ma troppo incline all’autoindulgenza ritiene di non dover più ripensare. Ospitalità, infanzia, educazione, scuola sono alcune di queste nozioni.

Paolo Mottana, nel suo Cattivi maestri. La controeducazione di René Schérer, Raoul Vaneighem e Hakim Bey (Castelvecchi, pagine 116, euro 14,50), lavora sull’ipotesi meno ovvia e scontata e, va da sé, più impegnativa. Impegnativa perché impegna il ricercatore in una linea che – da Fourier a Sade fino allo stesso Schérer –, interrogando il postmoderno, affonda nelle contraddizioni mai del tutto esplose della modernità. Lo impegna in un controcanone, che fuoriesca dalla linea matrice che ricompone a unità il pensiero pedagogico da Rousseau a noi, senza interrogarsi mai su questo «noi».

In quest’ottica, il lavoro di Schérer appare come vero punctum dolens di una questione quanto mai complessa, anche perché a complicarla – o ad anestetizzarci rispetto alla sua portata concettuale – sono intervenuti altri fatti e altre stratificazioni. Là dove Schérer prefigurava un «tempo della fine», il sistema si è riorganizzato. La «setta dei pedagogisti» presa di mira dallo studioso francese e da Mottana non si è sottratta certo – come leggiamo nell’Emilio pervertito – al «ridicolo nel quale sta tramontando», ma ha trovato il modo di protrarre all’infinito il tempo del proprio tramonto, riconfigurando il proprio ruolo dietro mascheramenti ad hoc: dalle tate, ai trainers, dai tutors agli «orientatori». Vecchi-nuovi operatori, commenta Mottana, di una «società sempre più pedagogizzata e psicologizzata».

Diritti e desideri
Eppure proprio quell’Emilio pervertito che nel 1974 scosse la comunità pedagogica (la traduzione di Luisa Muraro per Emme edizioni apparve due anni dopo), rappresenta a tutt’oggi una acuta disamina del «dominio incarnato delle istituzioni educative che ancora oggi è tutt’altro che esaurito». Su un punto Schérer già insisteva nel prologo della controutopia dell’Emilio: «prima di tentare una qualsiasi esposizione sistematica, il compito essenziale rimane ancora quello di decostruire».
Oggi, che di ricostruzioni sistematiche specie nel campo dell’educazione e della scuola se ne susseguono ogni giorno, quel «molto» appare una montagna spesso invalicabile. Dovremmo, osserva Paolo Mottana, ricomporre i fili di «una filosofia contestataria e al tempo stesso finemente analitica in grado di aggredire il sistema di potere e il dispositivo disciplinare della pedagogia familiare e scolastica, per profilarne il superamento». Servirebbe una pratica, per parafrasare il titolo di un altro libro di Mottana (Piccolo manuale di controeducazione, Mimesis 2012), di controeducazione dell’educatore. Un’opera di decostruzione che ha, però, alcuni punti fermi. Schérer appare uno di questi punti fermi, soprattutto per il rigore analitico, là dove rivendica, con tensione che gli deriva dagli studi su Fourier, una possibilità emancipatrice e disalienante in rapporto a un’educazione che potremmo definire «desiderante». Un’educazione che non tradisca la fiducia dei bambini, soggetti di diritti e desideri, non solo oggetto di attenzioni disciplinari.

Eppure è proprio qui che il pensiero di Schérer tocca un nodo cruciale: aver fatto, «noi moderni», dell’infanzia, in nome del riconoscimento del suo «diritto», una umanità in nuce, in scala ridotta ma non meno asservita. Sul piano dell’educazione, l’apertura all’altro, all’estraneo, questa necessaria ospitalità interstiziale tocca un punto fondamentale: il bambino, osserva Schérer in un altro suo lavoro passato in sordina, Enfantines (2002), «non soltanto sul piano dell’idea, ma proprio su quello della sensibilità, del suo corpo, è aperto sul mondo, laddove l’adulto si adopera per rinchiuderlo».

Una figura dell’erranza
Proprio per questo, mai come ora, commenta Mottana, sembra esserci «il bisogno di cattivi maestri, non allineati, sovversivi, esposti alle correnti vitali dell’étranger». Il bambino è questo étranger, ma è anche figura che chiama a un’ospitalità radicale. Nessuno come lui è volto all’Aperto, nessuno come il bambino è soggetto all’estirpazione di quella che, in Co-ire.Album sistematico dell’infanzia (scritto con Guy Hocquenghem, Feltrinelli, 1979), Schérer ricorda essere l’«erre» del bambino, ossia la sua erranza, la sua tendenza all’andar fuori dalla gabbia. La sua sovversione, ovvero il suo modo di muoversi nel mondo, di praticare forme di nomadismo. Ecco allora che l’erre è anche esercizio – si legge in Emilio pervertito – di una «sessualità incontenibile».

Affermazione, questa, che ha dato non pochi problemi a Schérer (coinvolto nel 1982 nel cosiddetto Scandalo Coral), paradossalmente proprio negli anni Ottanta, ossia alla fine di un’epoca in cui si accantonava la logica l’interdetto e si passava all’igienizzazione dei desideri. In realtà, ciò che la scuola produce – come «insegna» il Ferdyduke di Gombrovicz – non è tanto «l’uomo», quanto un essere ibrido tra bambino e adulto: l’allievo, figura addomesticata dello straniero interno, dell’ospite troppo grato, tanto grato da sconfinare nel servo. In questo senso, fra i tre cattivi maestri evocati da Mottana, Schérer sembra essere il «più» maestro e il più dolcemente «cattivo». Rilke, chiamato in causa a più riprese tanto da Mottana quanto da Schérer, scriveva che «quando si tratta del bambino non c’è che menzogna, finché non lo si cerca nella costellazione in cui sta».

Il bambino non appare mai là dove si trova e in questo si colloca in uno spazio di alterità e di inaccessibilità assoluta, ossia in quell’ospitalità che, fondendo due massime sapienziali e egualmente radicali, spinge a affermare: «divieni ciò che sei, perché io sono un altro». Insegnamenti attuali quanto mai per chi abbia a cuore quella esigenza vitale che, in altri anni e in altri tempi, qualcuno non temeva di chiamare «utopia».