Il primo film da regista dell’attore americano Brady Corbet non manca di ambizione. La sceneggiatura si ispira all’omonimo racconto di Jean-Paul Sartre, pubblicato nel 1939 (1946 per la traduzione italiana) nella raccolta il Muro. Sartre rintraccia la genealogia di un dittatore. Il figlio di un’industriale che tutti scambiano per una ragazzina per la sua delicatezza femminea, diventa un in età adulta un violento antisemita. L’idea è ripresa con molta fortuna da Jonathan Littell che, intersecando mito, tragedia e romanzo storico ha scritto con le sue Benevole (2006) uno dei più bei romanzi sulla guerra.

Corbet, autore anche della sceneggiatura, tenta un’operazione simile a quella di Littell. L’azione di L’infanzia di un capo si svolge nel cuore del teatro storico europeo, all’indomani del primo conflitto. Al posto del padre industriale, Corbet inventa un diplomatico di alto rango, impegnato nei delicati pourparler che precedono gli accordi di Parigi. Il diplomatico si reca tutti i giorni nella capitale, ma per la sua famiglia si è installato in campagna, in una grande villa vicino ad un villaggio. È qui che, nella sontuosa casa belle époque che si svolge quasi tutta l’azione.
Il villaggio è uno strano incrocio : la severità del pietismo nordico da un lato, le pratiche tipiche del fanatismo popolare del mezzogiorno dall’altro – come la processione di fedeli incappucciati.

È stato notato che Corbet, che è stato attore di Haneke in Funny Games, si ispiri volentieri ai temi e agli ambienti del regista austriaco. Il soggetto è lo stesso : il male. Così come il problema : che rapporto c’è tra il male visto al livello di una famiglia e quello visto al livello di una nazione ? Sono paragonabili ?
Il sospetto ovviamente è non solo che siano paragonabili, ma che siano in qualche modo inscindibili. Corbet è molto più spudorato di Haneke. O semplicemente più vorace. Mentre l’uno si accontenta di un simbolo, l’americano ne accumula cento… C’è da un lato la sessualità ambigua del ragazzo. Dall’altro l’assenza del padre. O meglio, la presenza altalenante di un padre al tempo stesso potente e impotente, presente e assente. Poi c’è la casa belle époque, sontuosa ma impossibile da riportare in vita… A questo caos di simbologie diverse Corbet oppone una rigida scansione del film in tre capitoli, alla maniera di von Trier (altro regista con il quale l’attore ha girato).

Curiosamente, l’effetto non è catastrofico. Perché, se da un lato il film non smette di girarsi verso la storia, in ultima analisi resta fedele ad una temporalità ben più modesta – che è quella del racconto intimo o familiare – la quale ridimensiona le ambizioni del film senza ridurle. Non si tratta di comprendere la storia, spiegarla o rivelarne il senso – e in effetti l’eroe non ha nessuna realtà storica. Cosa allora ? Forse non si tratta neanche di darne un’immagine.
Ma un suono. Quello di Scott Walker e dei suoi brani più cupi, in cui non è raro che appaiano fantasmi di vecchi dittatori con la zucca pelata. È sua la colonna originale del film, che riprende i toni oscuri di The Drift e in particolare al brano Clara (dove tutt’a un tratto appare la voce di Clara Petacci).

Il segreto di questo film curioso è probabilmente da cercare proprio nella musica. In particolare la terza parte, breve ed enigmatica, è più musicale che narrativa. Il film che fino a lì non si è spostato dalla casa del diplomatico, improvvisamente cambia epoca, toni, colori. Come un brano sperimentale iscritto in un album di musica leggera, l’ultimo capitolo spariglia il quadro. L’equivalenza con la musica è forse più morale che estetica. Si tratta di dare forma a due sentimenti dissonanti come l’attrazione e l’inquietudine. È chiaro che il regista è al tempo stesso affascinato dal fascismo, ma ne è al tempo stesso turbato.
L’ultima parte tenta di accordare queste due note ; e l’operazione non è totalmente inutile se, retrospettivamente, ritorna, come un’eco, il suono della prima parte del film.