La guerra, la violenza, l’esilio, la ricerca di un’identità: questi i temi che tornano, rideclinati ogni volta in modi assai diversi, nelle opere – romanzi e drammaturgie teatrali – del libanese, e canadese d’adozione, Wajdi Mouawad. Il folgorante Anima, del 2011, era una straordinaria esplorazione della bestialità umana, fatta in gran parte da voci di animali che nulla avevano di «bestiale», appartenendo all’infinito divenire della natura, e la vicenda si svolgeva dal Canada indietro fino alle radici del male che allignavano nell’anima del protagonista da sempre, fin dalla sua infanzia libanese; lo stesso viaggio a ritroso messo in scena nell’opera teatrale Incendies, del 2003, da cui era stato tratto l’omonimo film di Denis Villeneuve (intitolato in Italia La donna che canta). Adesso viene pubblicato il primo romanzo di Mouawad, Il volto ritrovato (Fazi, pp. 232, euro 17, traduzione di Antonella Conti), comparso nel 2002, che appare come il palinsesto dei libri successivi: qui infatti il viaggio è quello di un ragazzino, che si trova ad affrontare, nel pieno della linea d’ombra dell’adolescenza, i suoi fantasmi. Che, ancora una volta, sono i fantasmi della guerra vissuta nei primi anni di vita in Libano.

FANTASMI CHE esplodono e dilacerano la vita, facendone una distesa di frammenti sparsi, detriti che sono pietre d’inciampo, da attraversare fino a trovare, o ritrovare, il capo che permette di rintracciarne il senso. La scrittura, allora, appare come il luogo impossibile dove si rende possibile disegnare una salvezza dalla mostruosità dell’uomo, semplicemente esponendola nella sua trama.
Il volto ritrovato è un vero e proprio romanzo di formazione: un adolescente che si sente fuori luogo nel mondo, la sua presunzione d’innocenza, la fuga che gli fa incontrare situazioni che lo faranno diventare un altro. Un Holden cresciuto tra le bombe, e i cui incontri decisivi sono quelli con le proprie fantasmagorie, i propri incubi, le proprie visioni; ma anche con eventi e persone che sembrano a loro volta visioni, epifanie di qualcosa che si svela – come l’incontro decisivo con la bambina che gi donerà le parole per dirsi daccapo. E’ un lungo sogno lucido, quello di Wahab, che si muove nel (suo) mondo come in una foresta di segni incomprensibili, che doneranno un senso solo dopo l’attraversamento.

Il volto da ritrovare è quello della madre, che da un giorno all’altro Wahab – emigrato con la famiglia in Canada – non riconosce più. Per questo fugge: per ritrovare ciò che ha perduto, e nascere di nuovo. Nel prologo, composto da otto brevissimi capitoli, c’è per frammenti l’infanzia di Wahab. Un’infanzia assoluta: «Preferisco guardare gli uccelli» – e Wahab, l’infans, non parla. Poi, la tragedia: il rogo dell’autobus di palestinesi che nel 1975 segnò l’inizio della guerra civile in Libano. In quelle fiamme, il piccolo Wahab vede una donna vestita di nero con le mani e le braccia di legno. Quella donna nata dal fuoco divora un amico di Wahab e poi, da quelle fiamme, lo guarda, e il suo sguardo di Medusa incenerisce in lui ogni bellezza. Per quel bambino che voleva «salvare il mondo», adesso, «il cielo è rosso e la terra è divorata da un lupo». Da quel momento, il tempo non passa più nello stesso modo: sembra, anzi, che si fermi.

L’INFANZIA è un coltello piantato nella gola, per Wahab, e scoprire di avere quel coltello conficcato a fondo nelle sue carni sarà il senso del suo viaggio attraverso la linea d’ombra. Un viaggio che non viene raccontato da Wahab, ma da una voce esterna, e il motivo Mouawad lo fa enunciare da Wahab stesso: «Vorrei tanto non dire più io, non dover pensare più a niente. Vorrei tanto che qualcuno dicesse lui per me. Che mi sbarazzasse di tutto». In questa prospettiva, allora, il viaggio di Wahab assume il senso di una liberazione dal peso della propria anima, farsi cosa tra le cose, per ritrovare la parola, per scoprire che ogni cosa è animata, e così potersi riappropriare della propria.