Studi recenti stanno dimostrando in maniera sempre più convincente che la didattica online, adottata a panacea di tutti i mali in una situazione di urgenza e di emergenza, si sta rivelando foriera di grandi ingiustizie sociali. La tecnologia, nel presentarsi come ponte in grado di scavalcare la crisi e di portarci in un altrove desiderato, non sta creando nuove barriere, ma ne sta acuendo e aggravando di vecchie e ataviche. Ce lo insegnano già questi pochi mesi di situazione emergenziale: nella scuola e nell’università stiamo lasciando fuori gli ultimi, i più deboli economicamente.

QUANTI PRIMA non restavano indietro principalmente grazie ai loro sforzi e meriti individuali, e a quelli delle loro famiglie, oggi li stiamo perdendo per ragioni relative proprio alla tecnologia. Una tecnologia che, a ragion veduta, sta dimostrando di saper aiutare soltanto chi ne ha adeguato accesso. E lo Stato, con rare eccezioni, non sembra preoccuparsene troppo; non ancora almeno.

Grandi questioni irrisolte di questo paese, tutte con minimo comune denominatore di tipo economico, si stanno lentamente riversando sul sistema educativo con l’arroganza della beffa, una beffa legata ai mezzi economici, e dunque tecnologici a disposizione. Il che sconfessa platealmente il dettato costituzionale che nell’articolo 34 recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

Esiste poi un altro grande problema, legato alla scuola come seconda casa, seconda famiglia, contesto parallelo a quello degli affetti più stretti, in cui il contatto è cruciale. Da docenti, e anche da studenti, si ha sempre soltanto «un’impressione di contatto» attraverso la comunicazione a distanza. E per giunta, è un’impressione da privilegiati, perché chi ha soltanto un accesso discontinuo alla didattica online, non avrà nemmeno il lusso di sperimentarla. L’impressione di stare in classe, di conseguenza, si sta lentamente trasformando in un’impressione di classe, economicamente e socialmente discriminatoria.

L’ISTRUZIONE, oltre ai contenuti, ai curricula, ai programmi, dovrebbe innanzitutto partire da un concetto in grado di unificare il percorso educativo nel suo complesso, dalla scuola dell’infanzia all’università: un’idea che definirei di continuità emotiva. Purtroppo, nel passaggio da un livello d’istruzione all’altro – con l’unica eccezione forse del transito dalla scuola d’infanzia alla primaria – molti alunni e studenti subiscono ripetuti traumi da adattamento. Il trauma ad esempio di passare da una situazione in cui si dà «del tu» alla maestra, a un’altra in cui il professore è già un’entità più distante: meno mamma, meno papà, e più impiegato statale. Fino ad arrivare all’ineffabilità di tanti docenti universitari.

Quanti bambini raggiungono risultati ragguardevoli alle elementari e poi hanno problemi non appena giunti alle medie? Spesso questo nasce da problemi che hanno una radice emotiva. Lo stesso può dirsi degli altri passaggi da un livello scolastico a un altro. Nel nostro tempo, a questa situazione si aggiunge un’impressione di contatto che, come nei peggiori romanzi realisti, fornisce soltanto «un’aria di realtà», avrebbe detto Henry James.

La continuità emotiva, già minata e affranta da un sistema educativo colpevole di non fare «sistema» – balcanizzato regionalmente e non soltanto a seconda dei livelli scolastici o delle specificità disciplinari nelle scuole superiori – rischia ora l’annientamento, con l’acritico e frettoloso ricorrere a una didattica online che certo non lascia sempre scontenti i datori e i fruitori, ma che sbatte fuori dalla porta chi colpe davvero non ne ha.

La scuola, al di là dei contenuti dovuti e della preparazione culturale che deve fornire, dovrebbe tornare a riflettere sulla parola «affetto», poiché anch’essa fa riferimento a un qualche tipo di scambio. L’affetto è alla base dell’apprendimento sin dai tempi di Socrate. La mancanza di attenzione per la componente emotiva in tanta parte del percorso scolastico, ci parla di un fallimento di tutti, dei singoli e dello Stato, di un sistema volto non a gratificare ma a giudicare.

LA SCUOLA DEVE INSEGNARE che la mente non ha confini. Bisogna insegnare agli studenti a immaginarsi infiniti, e per farlo dobbiamo «insognare» prima ancora di provare ad impartire loro dei contenuti. La scuola, l’università, devono essere il regno di una calda umanità, contro la freddezza di una tecnica che si sta rivelando discriminatrice per selezione «innaturale».