«A maggio metteremo la parola fine a questa discussione». Ma anche «porteremo la legge in aula entro il 27 aprile». Sono le due indicazioni temporali con le quali Matteo Renzi chiude la sua relazione alla direzione del Pd. E chiude ogni spazio alla minoranza interna e alle richieste di modificare l’Italicum. Nessuna correzione, perché tornare al senato sarebbe «un azzardo». E niente indugi in commissione affari costituzionali, dove proprio oggi l’ufficio di presidenza deve stabilire il calendario delle prossime settimane. Per farsi spazio, la legge elettorale dovrà ancora una volta superare quella sul conflitto di interessi (rinviata dall’aula in commissione). Ma le tre settimane utili che ci sono da dopo pasqua a fine mese potrebbero non bastare. Soprattutto perché in commissione i contrari all’Italicum sono in netta maggioranza, e hanno poco interesse a correre. Si potrebbe riproporre la situazione già vissuta sulle riforme costituzionali, quando la minoranza Pd (12 rappresentanti in commissione sui 23 del partito) ha capito di poter fermare il disegno di legge Renzi-Boschi. Ma, spaventata dall’opportunità, ha scelto di non farlo. Ha «rinviato il confronto» in aula, dove Renzi non si è confrontato affatto.

Ed ecco allora il doppio avvertimento di Renzi al partito: rispettare la scadenza del 27 vuol dire mettere in conto di arrivare in aula senza chiudere l’esame in commissione. Trattandosi di una legge fondamentale come quella elettorale sembrerebbe un eccesso, non fosse che nel passaggio al senato è accaduto lo stesso. E poi le parole sulla fiducia: «Ne parleremo», ha detto il presidente del Consiglio. L’ipotesi non è esclusa, ma non significa che Renzi abbia deciso di porla sulla legge elettorale. Non certo per un rispetto delle forme – ieri il suo omaggio alla «centralità del parlamento» aveva il tono del necrologio – ma perché il premier sa che l’Italicum può contare sull’appoggio discreto di circa un terzo del gruppo di Forza Italia (i seguaci di Verdini) e dunque sarebbe inutile se non controproducente richiamare la fedeltà di governo. «La fiducia la metto tra di noi», dice il premier: è quello che fa da un anno quando minaccia soprattutto i suoi con le elezioni anticipate.

Proprio sul voto segreto si svolge una parte della rissa tra Renzi e il bersaniano D’Attorre, accusato di essere un ricattatore per aver minacciato «esiti imprevedibili in aula». Il regolamento della camera (articolo 49) lo prevede sugli articoli della legge elettorale, sempre che ne facciano richiesta venti deputati. Ma dal voto segreto, in definitiva, Renzi potrebbe guadagnare qualcosa tra i deputati berlusconiani in confusione. In ogni caso, seppure la dissidenza nel partito democratico raggiungesse il punto più alto fin qui toccato alla camera, che è quello del non voto al Jobs act a novembre scorso (38 voti mancanti su 308), i numeri a Montecitorio sono tali che la legge elettorale in aula non rischia nulla. Diverso il discorso, abbiamo visto, in commissione. E diverso ancora al senato, dove i 24 voti del Pd che a gennaio mancarono all’Italicum non furono decisivi solo perché all’epoca il patto del Nazareno era ancora ufficialmente valido. Per la minoranza Pd, allora, si tratterebbe di condurre al senato e sulla riforma costituzionale quella «guerra di movimento» suggerita da D’Alema. Non per nulla Renzi ha cominciato a far circolare la voce che qualcosa, magari, si può ancora cambiare. Peccato che pochissimo sia ormai modificabile proprio perché nel precedente passaggio alla camera il governo ha imposto la blindatura di quasi tutti gli articoli della legge, diventati definitivi dopo due letture conformi. Le cose stanno così e la riforma costituzionale a questo punto è più facile bocciarla che correggerla.

La direzione offre un anticipo della propaganda che accompagnerà l’Italicum nei prossimi due mesi. Renzi insiste a chiamare «candidati di collegio» i capolista bloccati che di collegi ne avranno una decina a testa. Per fare i calcoli sugli eletti con le preferenze anticipa le decisioni del suo partito (non faremo pluricandidature) e anche quelle degli avversari («utilizzeranno le candidature plurime in quantità industriale»). Solo così può addomesticare le percentuali e sostenere che con l’Italicum non ci sarà una maggioranza di «nominati». Ma tralascia il fatto che affidare al capolista blindato l’opzione successiva, e dunque la scelta dell’eletto, non è proprio la stessa cosa che far decidere gli elettori. Infine, niente da fare nemmeno per la richiesta di consentire l’apparentamento al secondo turno: secondo Renzi in questo modo si tornerebbe alle coalizioni e dunque «potevamo restare Ds e Margherita». Il rifiuto comporta che il premio di maggioranza effettivo sarà assai più alto del 15% dichiarato, e non esclude affatto la possibilità coalizioni travestite da listoni (anzi, con i capolista bloccati si possono premiare i piccoli partiti che rinunciano a ostacolare il grande). Ma di questo non si parla, piuttosto il segretario vagheggia una prima discussione «sul modello di partito» e una seconda su «cos’è oggi la sinistra». Il voto unanime che chiude la direzione suggerisce già qualche spunto.